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Economia / Approfondimento

Che cosa fare per una transizione giusta nel settore automotive

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I tagli occupazionali annunciati dal Gruppo Volkswagen, la crisi strutturale di Stellantis, la delocalizzazione delle attività produttive e il tracollo della componentistica. Le premesse per una transizione ingiusta nel comparto automobilistico europeo ci sono tutte. Urge una politica industriale. L’intervento della ricercatrice Linnea Nelli

La richiesta per una transizione giusta (just transition) è stata avanzata dal movimento internazionale sindacale e dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) durante la Cop16 nel 2010. Si chiedeva di mettere in atto una transizione che tenesse conto di condizioni di lavoro giuste nella formazione di nuovi posti di lavoro, i cosiddetti green (decent) jobs.

Il settore dei trasporti -responsabile del 20% delle emissioni di CO2– è insieme a quello energetico il comparto più colpito dalla decarbonizzazione. Con il “Fit for 55” l’Unione europea mira infatti alla riduzione delle emissioni al 55% rispetto ai livelli del 1990 e uno degli interventi è lo stop alla produzione di veicoli a combustione interna con combustibili fossili entro il 2035. Ciò comporta una ristrutturazione profonda del settore e relativi impatti occupazionali.

L’automotive ha il più alto moltiplicatore di valore aggiunto (Anfia) e occupa 13,8 milioni di lavoratori e lavoratrici in Europa, rappresentando il 6% dell’occupazione. La conversione della produzione sta comportando degli esuberi soprattutto sulle linee di assemblaggio e componentistica, considerando che i motori elettrici -che emergono come la soluzione tecnologica principale per la conversione- hanno un numero di componenti inferiore rispetto ai motori a combustione. Tali perdite sono attese di essere compensate dalla produzione di batterie per motori elettrici, ma questo dipende dalle strategie delle case automobilistiche rispetto a se importare o produrre le batterie, nel caso dove produrle.

La geografia della produzione della componentistica dei veicoli elettrici gioca infatti un ruolo fondamentale. Allo stato attuale, vediamo la produzione di batterie concentrata in Cina, Giappone e Corea del Sud, Paesi che godono di un vantaggio tecnologico e di disponibilità di materie critiche.

In Europa, si assembla solo un quarto della produzione globale di batterie (secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, Iea). In Italia, solo Iveco produce batterie e assali elettrici per veicoli commerciali a Torino, mentre la Gigactory Litophs/Faam di Teverola ancora non produce per automotive ma per difesa, industria navale, trasporto pubblico e applicazioni industriali. Inizierà a produrre batterie per veicoli elettrici dal 2026.

La Gigafactory di Italvolt prevista nell’ex stabilimento Olivetti a Scarmagno e a Termoli non nascerà perché l’azienda è sotto procedimento unitario di composizione della crisi; mentre la Gigafactory che dovrà nascere a Termoli dalla joint venture Acc tra Mercedes Benz, Stellantis e TotalEnergies ritarda nella sua attivazione, i fondi del Piano nazionale di riprese e resilienza (Pnrr) sono stati ritratti a causa dell’incertezza del mercato.

Gli esuberi legati alla crisi di settore e alla elettrificazione per produttori di componentistica sono invece ingenti e presenti su tutto il territorio italiano. Si pensi a Magneti Marelli, 550 a Bari nel 2022 e 299 a Crevalcore, di cui 152 sono stati salvaguardati grazie al passaggio di proprietà a Tecnomeccanica ma 40 addetti/e sono stati trasferiti e 27 di buone uscite; a Bosch, 700 a Bari tra il 2023 e il 2028; Pininfarina con 73 addetti in cassa integrazione a Carmagno e la dissoluzione dell’unico player nazionale, Stellantis, con 3.597 esuberi solo nel 2024 (addirittura, in Maserati a Modena 173 di cui 130 sono ingegneri; nel 2023 invitava 15mila addetti alle dimissioni volontarie).

Siamo lontani dalla possibilità di compensare le perdite occupazionali con nuove attività produttive legate all’elettrico, almeno su territorio italiano.

Tuttavia, sono condizioni ormai strutturali di settore alla base della dismissione del tessuto produttivo italiano automotive e non le peculiarità della transizione, come dichiarato da Michele de Palma (Fiom).

Secondo l’Osservatorio sulla componentistica automotive italiana e sui servizi per la mobilità 2024, la produzione di autovetture in Italia è ancora in calo rispetto al 2018, contrariamente alla produzione globale che ha recuperato i volumi rispetto alla produzione pre-pandemica. Nel 2023 l’Italia occupa solo il settimo posto per numero di autovetture prodotte in Europa. In termini di occupazione, In Italia nel 2008 si contavano 232.300 addetti vis-à-vis, 214.300 nel 2019 e 202.900 nel 2023, su un totale in manifattura di più di quattro milioni (dati Eurostat, European labour force survey).

Gli avvenimenti nel settore di queste ultime settimane nel settore ci ricordano bene che la transizione è un ulteriore elemento di complessità in un settore già profondamente in crisi.

Volkswagen ha annunciato un taglio di 15mila addetti per cui sono stati indetti scioperi, tagli per rimanere competitiva rispetto alla Cina e a causa dei costi troppi elevati per la conversione all’elettrico, ma anche per il calo della domanda -dovuto anche ai prezzi troppo elevati dei veicoli elettrici- che ha comportato una riduzione dell’utile negli ultimi anni.

Le dimissioni di Carlos Tavares da amministratore delegato di Stellantis hanno evidenziato i danni della strategia di profitto portata avanti dalla Ex Fiat negli ultimi anni. Già nel periodo tra il 2004 e il 2016, la produzione di (quella che diventerà) Stellantis si sposta verso veicoli premium, le spese in ricerca e sviluppo sono inferiori rispetto ai principali competitors, e la produzione decresce particolarmente a causa di una riduzione della domanda dovuta alla crisi economica, ma anche per fornitura da Paesi in cui era stata delocalizzata la produzione, soprattutto con la fusione con Chrysler. Infine, Stellantis sembra essersi mossa tardi nei processi di transizione.

In generale, il settore dell’automotive italiano è in difficoltà nell’affrontare la transizione a causa della delocalizzazione di attività produttive, non solo a basso valore aggiunto, verso i Paesi dell’Est (come Stellantis in Polonia); la vendita di aziende e impianti nella componentistica a multinazionali estere che investono in ricerca e sviluppo e produzioni per l’elettrificazione in impianti in altri Paesi, soprattutto in prossimità di centri di ricerca e sviluppo centrali e in Paesi con basso costo del lavoro; l’assenza di investimenti e la riduzione dell’organico nella trasformazione aziendale da Fiat, Fca a Stellantis.

In questo contesto, l’intervento pubblico è debole e in ritardo. Solo a dicembre 2023 si è instaurato il “Tavolo sviluppo automotive” che vede la partecipazione del ministero delle Imprese e del Made in Italy, Stellantis, Anfia, Regioni, sindacati e parti sociali per intervenire sulla transizione dell’automotive e raggiungere la produzione di un milione di auto.

Tuttavia, a solo un anno di distanza dall’istituzione del Tavolo, la Legge di Bilancio 2025 taglia 4,6 miliardi di euro di risorse destinate al fondo. Le politiche pubbliche per la decarbonizzazione del settore dei trasporti, tra cui il Pnrr e Fondo automotive 2022-2030, non affrontano la crisi di settore e la profonda ristrutturazione dovuta all’elettrificazione, si concentrano in incentivi all’acquisto di veicoli elettrici, che potrebbero non essere abbastanza per il prezzo troppo elevato dei veicoli, investimenti in infrastrutture di ricarica elettrica, ancora non sufficienti, potenziamento delle infrastrutture ferroviarie e nella filiera dell’idrogeno.

Sembra che ci siano tutte le premesse per una transizione ingiusta. Che cosa fare, allora, per una transizione giusta?

È necessaria una politica industriale nazionale ed europea che guidi la ristrutturazione dei settori più soggetti alla transizione, che limiti la strategia aziendale di delocalizzazione conseguente a obiettivi strettamente di profitto (emblematico il caso della ex Gkn), che intervenga sulle disuguaglianze socio-economiche legate al processo di transizione, rispetto all’eterogeneità dei territori. Uno Stato che generi buona occupazione tramite contrattazione collettiva con la rappresentanza sindacale in produzioni sostenibili intervenendo sulle condizioni strutturali delle disuguaglianze socioeconomiche tra territori può essere la soluzione per una transizione giusta.

Linnea Nelli è dottoranda in Studi sull’Innovazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I suoi interessi di ricerca sono gli effetti del cambiamento tecnologico sull’occupazione e sulle disuguaglianze socioeconomiche, in particolare in conseguenza della transizione verde e in una prospettiva di genere. Si è laureata in Economia all’Università di Pisa e alla Scuola Superiore Sant’Anna, con una tesi che mette a confronto gli effetti della crisi di Covid-19 e della crisi del debito sovrano sulla disuguaglianza di genere nel mercato del lavoro italiano. È ricercatrice per Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per l’anno 2023/2024, vincitrice della quinta edizione del Premio Alessandro Pansa.

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