Diritti / Intervista
Bruno Montesano. Essere ebrei al di fuori di Israele dopo il 7 ottobre
Le critiche al Governo Netanyahu, il problema dell’identità vittimaria, la strumentalizzazione dell’antisemitismo e le ingiuste generalizzazioni che scatenano sospetti “indebiti” verso chi è continuamente chiamato a prendere una posizione. Intervista a Bruno Montesano, ricercatore esperto di razzismo, tra i componenti del Laboratorio ebraico antirazzista (LəA)
Non è facile essere ebrei che vivono fuori da Israele in questo periodo. Nemmeno se si è critici contro il Governo Netanyahu e se si denunciano le violazioni a Gaza. “Come se ci fosse sempre un sospetto e una richiesta di prese di posizione”, dice Bruno Montesano, ricercatore romano, esperto di razzismo, tra i componenti del Laboratorio ebraico antirazzista (LəA) e curatore del volume “Israele-Palestina. Oltre i nazionalismi” (Edizioni e/o).
Montesano, qual è il suo rapporto con l’identità ebraica?
BM Inizialmente ho avuto un rigetto. E non perché abbia subito dei casi di antisemitismo grave. Avendo militato nella sinistra di movimento, spesso ho incontrato una sottile forma di sospetto, di ostilità e la richiesta di giustificazioni e prese di posizione, che considero indebita, perché l’appartenenza a una religione non legittima l’ingiunzione a schierarsi. Poi nel tempo, anche grazie ai miei studi, ho accettato di più questa parte della mia identità, ho smesso di considerarla un peso o una forma di minorità, prendendola come un dato di fatto. L’identità ebraica per me è sapere che la famiglia di mia madre sia dovuta fuggire dall’Italia fascista negli anni Trenta in Argentina, per poi tornare in Italia, perché anche in Argentina arrivò il fascismo. Questo mi ha portato a interessarmi al razzismo e al rapporto tra le minoranze e lo Stato, che nel periodo in cui sono cresciuto si esprimeva soprattutto in forme di xenofobia e islamofobia.
Perché ha deciso di fare politica come ebreo?
BM Perché non trovavo uno spazio per tenere insieme una critica radicale al governo e alle politiche israeliane e allo stesso tempo il fastidio per quel sospetto che sentivo verso di me di alcune parti della sinistra radicale, che spesso deriva da ignoranza e altre volte è più strutturato. C’è un problema di antisemitismo a sinistra e, a volte, degli argomenti antisionisti sono in realtà antisemiti.
Per esempio?
BM Astrarre il sionismo, come se fosse un’entità di uguale capacità organizzativa ed efficacia del capitalismo o del colonialismo, invece che comprendere le ragioni storiche della sua emersione. Il sionismo è un movimento nazionalista -e, in quanto tale, con elementi di razzismo- nato a fine Ottocento in risposta a uno specifico clima culturale: senza un potere politico per gli ebrei, non era possibile essere protetti. Ci sono delle ragioni, cioè, per cui prese piede nelle comunità ebraiche e, poi, ovviamente, si rafforzò durante e dopo il nazifascismo. Il sionismo è una forma di nazionalismo che ha un aspetto coloniale, ma con delle specificità di cui tenere conto.
Quindi non è colonialismo da insediamento?
BM In parte lo è, ma la questione mi sembra più complessa: non è un colonialismo da insediamento come lo sono stati quello statunitense o australiano, perché non c’era una madre patria per gli ebrei, che andavano lì nella doppia veste di rifugiati e coloni. Questo non toglie che andare in Palestina, pensando che non ci fosse una popolazione residente o che questa potesse essere cacciata con la forza, sia stata un’enorme ingiustizia.
Mi è capitato di non riuscire a coinvolgere esponenti della comunità ebraica in iniziative in cui c’erano dei palestinesi. Come è possibile pensare a un dialogo in Medio Oriente, se non riusciamo a instaurarlo qui?
BM Il problema è che se non sei “contento” del 7 ottobre, sei spesso considerato un collaborazionista del sionismo. Non mi aspetto che i palestinesi condannino quello che è successo, però tra questo e glorificarlo, o dire che sia stato “l’inizio della rivoluzione” e che non ci siano stati stupri o morti civili rende difficile un possibile dialogo.
Gli stupri però non sono stati a centinaia, come è stato detto dal governo israeliano. Il che non significa che quello che è successo il 7 ottobre non sia grave.
BM È vero che le cifre sono state gonfiate e sarebbe stato importante dare le informazioni giuste sin dall’inizio, però nel dibattito molti si sono messi a decostruire cosa è successo il 7 ottobre, come se, al netto della propaganda, fosse stata un’azione militare “pulita”, e non anche un massacro. È vero che le rappresentanze istituzionali delle comunità ebraiche sono più di destra degli ebrei italiani e che anche certe formazioni ebraiche di sinistra non brillino per progressismo. Quindi sì, sarebbe importante dialogare -ed è una cosa che ho provato a fare- ma non è facile.
Tra le comunità ebraiche italiane, quella romana sembra molto più tradizionalista e in linea con il governo israeliano. Perché?
BM Ci sono comunità più progressiste, come quella di Torino e Firenze, mentre Roma no. E ci sono anche delle ragioni generali: Torino è sempre stata una città da un lato di lotte operaie, dall’altro di intellettualità e resistenza partigiana e quindi la comunità ebraica riflette anche questo. Roma, al contrario, è una città meno inequivocabilmente progressista: c’è stato un momento in cui vi era una componente ebraica rilevante nelle forze comuniste, o comunque nella sinistra romana, ma ora riflette lo scivolamento a destra di tutta la società italiana. Il problema è un altro.
Quale?
BM L’identità vittimaria. Sentendosi vittime, cioè, ci si irrigidisce e si diventa molto aggressivi, perché non si vuole che si ripeta l’offesa subita. E questo porta al peggio. Su scala più grande, a quello che succede in Israele: la minaccia percepita diventa violenza agita.
Quanto è facile per lei avere queste posizioni nella comunità ebraica?
BM Dipende chi si frequenta. Ci sono progressisti anche a Roma, esponenti di liste con cui posso discutere: magari pensano che io sia un “ebreo che odia sé stesso”, però il terreno di dialogo si trova. Con la destra è più difficile e, anche in famiglia può esserlo, anche se non con le persone a me più vicine. E poi forse c’è un altro problema: la sinistra istituzionale da almeno 30 anni è sostanzialmente filo-israeliana, mentre la sinistra più radicale, per varie ragioni, ha posizioni più vicine alla causa palestinese. Il 7 ottobre da molti non è stato concepito come un massacro, ma solo come un atto di resistenza. Riconosco quest’ultimo aspetto, ma anche gli strumenti della resistenza sono contestabili. Non è che, tornando alla questione delle vittime, perché sei “vittima”, allora tutto è concesso. Per questo, dopo il 7 ottobre molti attivisti di sinistra ebrei, qui e in altri Paesi, si sono sentiti molto soli.
Ritiene quello in corso a Gaza un genocidio?
BM Non sono un giurista: penso ci siano senz’altro dei crimini di guerra e contro l’umanità. Penso anche però che il termine genocidio abbia un carico polemico ed emotivo molto forte per gli ebrei, nonché una possibile implicazione discutibile, ossia la trasformazione delle vittime in carnefici, che è una tesi molto scorretta. Non sono le vittime delle camere a gas che stanno facendo il genocidio e non si può responsabilizzare un’intera popolazione per quello che fa un governo: in Israele inoltre esistono delle minoranze contro il massacro a Gaza. E ci sono delle manifestazioni molto partecipate e quindi non è giusto generalizzare. La società israeliana è malata, ma la malattia non è solo lì: i governi di estrema destra li abbiamo anche in Italia e in Europa. E quindi molti attivisti ebrei si sono sentiti soli, perché non si riuscivano a tenere insieme le due cose: che il 7 ottobre era stata una mattanza di civili e allo stesso tempo che la risposta israeliana era inaccettabile. Poi, peggiorando la situazione, è diventato sempre più indicibile e quindi, in parte, gli ebrei di sinistra hanno deciso di silenziare la loro sofferenza.
Come giudica il racconto mediatico italiano dopo il 7 ottobre?
BM Quello che è emerso è un doppio standard. C’è stata una disumanizzazione evidente: delle vittime israeliane si sa molto di più, degli oltre 40mila palestinesi si sa pochissimo. Specularmente, su scale inferiori, parte del movimento di solidarietà con la Palestina ha deciso di ignorare l’aspetto della morte dei civili israeliani, il che è comunque una forma di disumanizzazione.
Che cosa pensa della cosiddetta soluzione a due Stati?
BM Penso che abbia vari problemi e che uno Stato binazionale, con uguali diritti per tutti, dopo una commissione di riconciliazione sul modello sudafricano, sia la prospettiva migliore, anche se non molto plausibile, se non nei prossimi 30-50 anni.
E della facilità con cui scatta l’accusa di antisemitismo, quando si critica il governo israeliano? Che cos’è per lei l’antisemitismo?
BM La definizione “ufficiale” di antisemitismo (formulata nel 2016 dall’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto, ndr) è molto stiracchiata ed è usata in modo strumentale e repressivo dall’estrema destra, facendo così un enorme danno, perché non si capisce più quali siano i casi reali. Per me antisemita, ad esempio, è l’ipotesi della doppia lealtà, per cui se sei un cittadino italiano e un ebreo, è come se non fossi del tutto parte della nazione e fossi sospetto di servire gli interessi di un altro Paese. Gli ebrei non sono la minoranza più perseguitata d’Europa, allo stesso tempo però ci sono episodi e casi di odio. A prescindere dalle posizioni, in quanto ebreo, sei considerato un nemico e a volte è difficile sentirsi così.
© riproduzione riservata