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Moj Dom/Casa Mia: che cosa è casa dopo una guerra

Uno dei dittici presenti alla mostra: Casa è un'icona e delle audiocassette

A trent’anni dalla dissoluzione della Jugoslavia, Codici e Laboratorio Lapsus riflettono sulla guerra, la memoria, lo sradicamento e la nostalgia attraverso gli oggetti che rappresentano “casa”. Il 18 e 19 novembre la conferenza finale del progetto europeo finanziato dal programma Cerv presso il Museo Nazionale di Slovenia Metelkova

Sono passati 30 anni dalle guerre che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia e il loro ricordo continua a modellare la vita, le relazioni e le politiche di quei territori.

Il progetto europeo “Moj Dom: Rifugiati, migrazioni e ricordi cancellati all’indomani delle guerre jugoslave“, finanziato dal programma Cerv/Remembrance di Eacea, è nato nel 2021 proprio per indagarne le differenti interpretazioni, considerando i problemi che derivano dalla rimozione o dall’uso strumentalizzato della memoria.

Lo ha fatto mettendo al centro un aspetto strettamente personale ma allo stesso tempo universale, quello della casa –moj dom significa infatti la mia casa- cercando di rispondere alla domanda: che cos’ è casa dopo una guerra per coloro che sono stati forzati a migrare?

I nove partner coinvolti -dipartimenti di università, centri di ricerca ma anche spazi culturali e teatrali-, di cinque Paesi europei -Croazia, Slovenia, Germania, Austria e Italia- hanno condotto centinaia di incontri e interviste approfondite per raccogliere storie ed esperienze personali relative al senso di casa e di sradicamento.

Hanno inoltre impiegato strumenti di raccolta, come focus group, eventi pubblici, immagini e paesaggi sonori, presentazioni artistiche e workshop in scuole, università e centri di educazione, grazie ai quali hanno elaborato un kit didattico per l’educazione formale e non formale che verrà presentato nelle giornate del 18 e del 19 novembre presso il Museo Nazionale di Slovenia Metelkova dove si terrà la conferenza finale dal titolo “Moj Dom – Memorie di casa nel passato e nel futuro”.

Uno dei dittici presenti alla mostra: Casa è una fotografia dei genitori

I partner italiani del progetto sono Codici, organizzazione indipendente che si dedica alla ricerca e alla progettazione sociale, e l’associazione di storia contemporanea Laboratorio Lapsus che a inizio novembre negli spazi di Careof nella Fabbrica del vapore di Milano, hanno presentato la mostra “Moj Dom/Casa Mia. Ritratti, oggetti e memorie a 30 anni dalla dissoluzione della Jugoslavia”, condividendo i risultati di una piccola parte di questo lungo percorso.

Sara Troglio, tra le coordinatrici insieme a Lorenzo Scalchi, ha spiegato infatti come l’idea del progetto Moj Dom fosse stata sviluppata a partire dalla volontà di ampliare un discorso già avviato nelle repubbliche della ex Jugoslavia per indagare come le comunità di quei luoghi stessero reagendo all’ondate di persone spinte a percorrere la rotta balcanica dalla guerra civile in Siria, da altri conflitti nel territorio e dalla chiusura di mezzi legali di migrazione.

Un discorso che poi ha preso diverse forme diventando un tentativo di dialogare con gli eventi del passato, stabilendo però una forte connessione con quelli del presente. “Gli eventi internazionali sono entrati di prepotenza nel progetto che era in fase di scrittura quando le tensioni tra Russia e Ucraina sono diventate una guerra di invasione, -racconta Troglio- e ha iniziato la sua fase di studi e incontro qualche giorno dopo gli eventi del 7 ottobre 2023. Molte delle parole che stavamo utilizzando riferite al passato abbiamo iniziato poi a usarle al tempo presente”.

Uno dei dittici presenti alla mostra: Casa è una džezva

La mostra ha dunque esposto il materiale raccolto durante una serie di collection days, eventi di condivisione di ricordi a cui sono stati invitati coloro che hanno trovato rifugio dalla guerra in Italia ma anche chi li ha aiutati, accolti e assistiti in quegli anni. Nello specifico, questi momenti “attivatori della comunità” sono stati organizzati a Verona nella sala di culto della comunità islamica bosniaca, a Piacenza dove è stata coinvolta un gruppo di giovani dai 14 ai 26 anni con in comune origini bosniache, e a Milano e Vicenza dove si è cercato di includere sia comunità nazionali sia persone con esperienza negli aiuti umanitari che la società civile del Nord Italia organizzò negli anni Novanta in risposta alle guerre nell’ex Jugoslavia.

A ognuno è stato chiesto di portare un oggetto che rappresentasse il proprio senso di casa e di raccontarlo “nel modo più spontaneo che potesse davanti a una telecamera -dice Marco Carmignan, il fotografo che ha girato i video e ideato e creato i dittici, le coppie di fotografie che associano ogni persona intervistata all’oggetto scelto-. Non ho fatto nessun intervento di taglio sulle registrazioni”. Non sono state infatti imposte regole o limitazioni, e così che alcune voci si dilungano e si commuovono, raccontano i dettagli attingendo a ricordi lontani. Ad altre bastano invece poche parole: nome e cognome e descrizione dell’oggetto scelto.

Uno dei dittici presenti alla mostra: Casa è una borsa “Zene za mir” (Donne per la pace) e delle papuče

Casa è dunque una džezva (caffettiera) perché il caffè è cultura dello stare insieme, un hijab antico che veste meglio degli altri perché non scivola quando si va in moschea, è un’icona sacra che ricorda le domeniche in chiesa con la famiglia o un paio di papuče (babucce) simbolo dell’ospitalità.

Attraverso sei sezioni tematiche –displacement, attivismo, comunità, ricostruzione, ritorno e trasmissione- che hanno ripreso elementi ricorrenti emersi delle interviste, la mostra ha tracciato un viaggio visivo e sonoro intorno al rapporto che chi ha fatto esperienza della guerra o più in generale che ognuno di noi ha con quello che definisce casa. Al centro della mostra è stato allestito infatti un piccolo salotto, il cuore delle nostre case, due divani e un tavolino dove fermarsi a riflettere e pensare a cose, profumi, sensazioni e a tutto quello che ci fa sentire a casa.

Uno dei dittici presenti alla mostra: Casa è una Tespih (collana di grani di preghiera/rosario islamico)

“Parlare di guerre in ex Jugoslavia significa parlare di politiche internazionali -aggiunge Scalchi- ma anche di storie intime. La guerra di Jugoslavia è una guerra che entrata nelle case” intesa come spazio fisico, edificio, ma anche come spazio personale di sicurezza, e il potere evocativo degli oggetti ci riporta dentro queste: case abbandonate, andate distrutte, da cui si è scappati portando con se solo due kašičice (cucchiaini) e un milerić (centrino) “perché non sapevo se la mia casa sarebbe stata mai più mia”; che sono state aperte all’ospitalità, dove si è trascorso insieme del tempo e si sono create relazioni fraterne, dove “ancora vive un legame indissolubile con due ragazze di Sarajevo”. Ma anche case che sono state ricostruite in altri contesti al sicuro dalla guerra, “case nuove”.

E di rimando si ritorna ai ricordi di infanzia, ai giorni in famiglia, ma anche all’esperienza della separazione e dello sradicamento e alla nostalgia “che non è per forza qualcosa di negativo -conclude Scalchi- ma è un sentimento che permette anche di analizzare l’oggi, di valutare se stessi rispetto al proprio passato”.

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