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Finanza / Opinioni

Per nascondere le difficoltà economiche il Governo Meloni privatizza pezzi pregiati

© rivage - Unsplash

Open fiber, Tim, Eni, Poste italiane e, domani, Ferrovie dello Stato. La volontà dell’esecutivo di “fare cassa” in realtà fa perdere soldi e vantaggi strategici, comportando licenziamenti massicci. Gli unici a festeggiare sono i colossi della finanza. In un Paese dove crescono le disuguaglianze mentre le rendite sono apertamente favorite. L’analisi di Alessandro Volpi

A proposito di sovranità e di Europa. Lo Stato italiano ha ormai soltanto un pezzettino di rete strategica. Si tratta di Open fiber, che dal 2016 dovrebbe posare la rete in fibra nelle “aree disagiate” del Paese e che è partecipata al 60% da Cassa depositi e prestiti (Cdp). Il restante 40%, guarda caso, è già nelle mani di un fondo, Macquarie, che “gestisce” Autostrade per l’Italia. 

Ora l’Unione europea ha sollevato obiezioni, in realtà abbastanza generiche, sull’azione di Open fiber che, peraltro, ha ricevuto un finanziamento del Piano nazionale ripresa e resilienza (Pnrr). Queste obiezioni stanno mettendo in seria difficoltà Open fiber che rischia di perdere le proprie linee di credito bancarie e dunque di andare incontro al fallimento; un esito, questo, che farebbe la gioia della sua concorrente, Fibercop, posseduta al 70% da Kkr, lo stesso super fondo -partecipato dai colossi della finanza tra cui BlackRock e Vanguard- che ha acquisto la rete fissa di Tim, trasformata in uno “spezzatino”.

Kkr spera di nuovo di beneficiare dello spezzatino: Open fiber fallisce e viene smembrata così da consentire l’acquisto delle parti migliori a Fibercop, e dunque il fondo fa di nuovo cappotto. Affidare a Kkr la posa della fibra nelle “aree disagiate” mi sembra un ossimoro, ma il monopolio della rete è un vantaggio strategico che Unione europea e governo italiano paiono volerle regalare. Nel silenzio generale. 

Nella stessa logica, distorta, si muove la volontà di fare cassa, in realtà perdendo soldi, da parte dell’attuale governo. Per far quadrare i conti della Legge di bilancio, appesantiti dagli oneri europei e da una stima del Prodotto interno lordo (Pil) dello 0,6% e non dell’1% come previsto nel Documento di econimia (Def), il governo Meloni deve realizzare privatizzazioni per almeno sei miliardi di euro. In realtà tre miliardi di euro li ha già acquisiti vendendo tra l’altro una quota della pregiatissima Eni. Altri tre miliardi, e forse addirittura cinque, sembra intenzionato a realizzarli vendendo un pezzo di Poste italiane e scendendo da circa il 65% al di sotto di quel 35% che, in gran silenzio, l’esecutivo aveva ipotizzato fin da gennaio.

Così coprirebbe un pezzo di manovra rinunciando però a utili e dividendi di una società come Poste che ha raggiunto quest’anno la capitalizzazione record di 16 miliardi di euro e ha realizzato un miliardo di utili. Soprattutto Poste italiane è la società che ha il maggior numero di dipendenti nel Paese, 126mila, e la sola in tutto il panorama nazionale che supera i 100mila. L’altro “colosso” è Ferrovie dello Stato, ancora interamente pubblico e in odore di parziale privatizzazione. 

Per nascondere le difficoltà economiche, il governo privatizza pezzi pregiati, che garantirebbero entrate importanti, e con un esteso numero di dipendenti, destinati assai probabilmente a essere in gran numero licenziati. Con Poste privatizzate, magari con principale azionista un grande fondo americano, sarà difficile per le comunità locali difendere gli uffici postali al di fuori delle metropoli. 

Nel frattempo è sufficiente fornire qualche numero per capire le ragioni dell’aumento delle disuguaglianze nel nostro Paese. Ogni anno, nonostante le tante promesse, le accise sui prodotti energetici continuano a gravare sui consumatori, senza alcuna distinzione di reddito, per oltre 30 miliardi di euro. Più in generale, quasi la metà dell’entrate erariali è composta dall’Iva, per poco meno di 200 miliardi, ancora una volta, trattandosi di un’imposta indiretta, senza distinzioni di reddito. Il gettito sulle plusvalenze finanziarie è invece, soltanto, pari a 1,5 miliardi di euro, e quello sugli interessi delle obbligazioni non arriva a cinque miliardi. Senza una riforma fiscale sarà davvero difficile ridurre le disuguaglianze e restituire progressività a un sistema che, attualmente, favorisce apertamente le rendite. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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