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Ambiente / Attualità

La crisi climatica e lo sfruttamento del territorio minacciano le coste basse italiane

Un rudere in balìa delle mareggiate sulla spiaggia di Palmi (RC) © Cesare Barillà

Tra l’innalzamento del livello del mare e la pressione antropica sul retroterra, potrebbe sparire un quinto della superficie dei nostri litorali sabbiosi entro il 2050. Causando inoltre un danno economico pari almeno a 30 miliardi di euro. Uno studio scientifico mostra come si è arrivati a questo punto e che cosa dovrebbe cambiare nella gestione costiera per evitare il peggio

Le temperature medie globali salgono e l’acqua aumenta di volume, fenomeno aggravato dallo scioglimento dei ghiacci. Il Mediterraneo, un mare chiuso e caldo, è molto vulnerabile. Il suo livello potrebbe innalzarsi di 1,3 metri da qui al 2100. Finora è già aumentato di 20 centimetri. Sembra poco ma non lo è affatto”.

Perché l’erosione costiera colpisce le spiagge italiane? Come adattarsi? Se lo sono chiesti Filippo Celata, ordinario di Geografia economico-politica dell’Università di Roma La Sapienza, ed Eleonora Gioia, ricercatrice presso il dipartimento Metodi e modelli per l’economia, il territorio e la finanza del medesimo ateneo. Uno studio pubblicato sulla rivista Applied Geography contiene le loro conclusioni; in autunno, analisi e riflessioni più generali sull’impatto della crisi climatica sulle nostre coste confluiranno nel XVII Rapporto della Società geografica italiana. 

Professor Celata, quali sono le vostre previsioni?
FC Secondo l’Istituto superiore per la ricerca e protezione ambientale (Ispra), dal 2006 a oggi il 18% delle coste basse italiane ha subito erosione e arretramento. Entro il 2050 sarà il 70%. I litorali sabbiosi hanno un elevatissimo valore ecologico, sociale ed economico: potrebbe sparire un quinto della loro superficie da qui alla metà del secolo, e il 45% entro la fine. Difficile dire se prevarranno inondazioni temporanee o sommersioni permanenti, ma eventi estremi come le mareggiate saranno senz’altro più intensi e frequenti. Ad aggravare i rischi, il fatto che l’erosione costiera non dipende solo dalla crisi climatica. 

Come mai?
FC Le maree sono contenute e la costa stabile, quindi molto urbanizzata. Costruire sulle coste oceaniche è più difficile, il che lascia spazio per limitare l’erosione. Invece nel Mediterraneo, e in particolare in Italia, le aree vicine alle spiagge sono state spesso cementificate o comunque modificate. A questo si aggiungono tre problemi. Primo, la diminuzione dei detriti trasportati dai corsi d’acqua, dovuta soprattutto al prelievo idrico. Secondo, la subsidenza, cioè il lento sprofondamento del terreno, le cui cause sono il peso delle costruzioni lungo la costa, lo sfruttamento eccessivo delle falde acquifere, l’estrazione di idrocarburi e le bonifiche. Terzo, il sovraffollamento turistico. Negli ultimi decenni si è ridotta la densità dei residenti entro 150 metri dalla linea di costa, ma è aumentata la parte di litorali occupata da infrastrutture. Motivo? La sostituzione della popolazione stabile con quella turistica, temporanea. 

Dove c’è maggiore vulnerabilità?
FC L’area più a rischio nel suo complesso è l’alto Adriatico. Le Regioni più fragili da qui al 2050 sono Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia e Puglia. Entro il 2100 anche Campania e Lazio scaleranno la triste classifica. Il Tirreno settentrionale sembra meno colpito dall’erosione, ma localmente ci saranno problemi anche in Liguria e in Toscana, dove la porzione di spiagge a rischio triplicherà nella seconda metà del secolo, pur restando sotto la media nazionale. Sono più esposte le spiagge strette e incastonate tra promontori. Ma al di là della loro morfologia, si tratta di capire se possono arretrare naturalmente. Un retroterra artificializzato lo impedisce: in Campania e in Lazio questo accade nel 70% dei casi; nelle Marche si arriva all’80%. 

L’erosione costiera a Spiaggiabella (LE) © Agim Kërçuku

Finora che cosa si è fatto per ridurre i danni?
FC Sono state costruite difese costiere, come scogliere artificiali e barriere frangiflutti. Smorzano il moto ondoso e a oggi proteggono più di un quarto della lunghezza totale delle spiagge sabbiose. A esse si aggiunge il ripascimento, cioè il depositare sabbia su spiagge che si sono assottigliate. Protezioni adeguate se fatte bene, ma non prive di problemi. In primo luogo, non sempre vengono realizzate sulla base di studi che valutano se ci sono alternative migliori. Poi, con un’erosione sempre più pervasiva la tenuta delle difese si fa precaria. Finora hanno retto, e il rapporto costi-benefici rimane favorevole, ma col tempo la loro efficacia diminuirà e saranno più onerose manutenzione e sostituzione. E soprattutto, sono soluzioni che fanno aumentare la superficie di spiaggia sopraflutto, ma aggravano l’erosione sottoflutto, quindi complessivamente peggiorano la situazione. In vent’anni la densità delle difese è aumentata del 50%, in Regioni come Marche e Molise ce ne sono più di cinque per ogni chilometro di costa. Di questo passo, i litorali sopravviveranno solo tramite opere sempre più diffuse e impattanti, che minacciano la qualità delle acque, di cui frenano il deflusso, e la fruizione delle coste. Sforzi volti a preservare le spiagge, ma che a lungo andare possono contribuire alla loro scomparsa. 

Una struttura ricettiva incompiuta a Cesenatico (FC) © Lorenzo Mini

Quali sono le alternative?
FC Da un lato il riallineamento gestito, una serie di interventi volti a fare spazio al mare, rafforzando la capacità adattativa naturale delle coste. Spesso prevedono anche la creazione di habitat come paludi o banchi di fango, che forniscono protezione naturale e dinamica. Dall’altro l’arretramento gestito, l’allontanamento pianificato di persone, beni, edifici e attività dalle aree a rischio. Sono soluzioni difficili, che incontrano opposizioni. Tendiamo a preservare lo status quo anche se problematico, a sottovalutare i rischi finché non è troppo tardi. Ma se l’unica difesa passa per l’artificializzazione, le alternative diventano più costose e le conseguenze più gravi. La rinaturalizzazione è invece complessa nell’immediato ma efficace nel medio-lungo periodo. A oggi ne esistono pochissimi esempi, tra cui quello di Rimini: realizzazione di bacini di contenimento per l’acqua alluvionale e ripristino delle dune, un ecosistema prezioso che, con la sua vegetazione, fa da barriera contro le mareggiate. Il tutto accompagnato dall’innalzamento e la pedonalizzazione del lungomare, un’opera di adeguamento. 

I resti dell’ex Villaggio Merola, un complesso residenziale a Capaccio Paestum (SA) © Alessandro Pecoraro, Gianfranco Pollaro e Angelo Avagliano

C’è disponibilità a ragionare in questo modo?
FC Poca. Siamo impreparati a gestire il territorio con criterio e nell’interesse pubblico, e disarmati di fronte a scenari che richiedono lungimiranza. Le coste italiane sono segnate dall’abusivismo, uno sviluppo urbanistico avvenuto fuori da piani e autorizzazioni. Tuttavia, difficilmente si interviene, anche in caso di manufatti pericolosi o che deturpano il paesaggio. Le azioni seguono inerzia e particolarismi, perché a monte ci sono problemi più politici ed economici che ambientali. 

Che cosa serve per cambiare rotta?
FC Occorre consapevolezza. L’entità esatta del rischio che corriamo non è chiara, ma questo non giustifica la scomparsa di questi temi dal dibattito pubblico. Anche quando se ne parla, prevalgono scetticismo e attendismo da una parte e catastrofismo dall’altra: ci vuole una via di mezzo. Poi è necessario cambiare la gestione delle coste. È molto decentrata, ma i Comuni costieri sono spesso piccoli, dipendenti dal turismo e vulnerabili a interessi di parte. Bisogna invece guardare al lungo periodo. Infine, dobbiamo chiederci in nome di chi si governa il territorio. Penso alle concessioni balneari: estenderne la durata, rinnovarle agli stessi gestori o metterle all’asta sono tutte forme di privatizzazione. Le spiagge sono patrimonio collettivo, non possono essere affidate solo alle logiche di una lobby o del mercato. 

Esistono esempi virtuosi da imitare?
FC La situazione nel resto del Mediterraneo è simile alla nostra, anche se in Spagna e in Grecia c’è maggiore presenza pubblica nella raccolta dei rifiuti e nella sorveglianza, mentre in Italia è tutto affidato ai gestori degli stabilimenti. In Nord Europa, Gran Bretagna e Stati Uniti ci sono stati interventi di rinaturalizzazione e arretramento gestito, ma su litorali poco sfruttati o a seguito di disastri che avrebbero comunque costretto a ricollocare le popolazioni, pena tragiche perdite umane e materiali. Si può puntare su progetti pilota di cui presentare i benefici a comunità e operatori. Non agire implica un danno di 1.600 euro per ogni metro quadro di spiaggia sabbiosa scomparso, e perdite attese pari a circa 30 e 80 miliardi di euro, rispettivamente entro il 2050 e il 2100. 

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