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Diritti / Inchiesta

Le difficoltà quotidiane dei detenuti di fede islamica nelle carceri italiane

Nelle carceri piemontesi sono ufficialmente 706 i detenuti di fede islamica e appena due gli imam che accedono agli istituti. La Casa circondariale Lorusso Cutugno di Torino (in foto) è la struttura più grande della Regione con 1.389 detenuti a metà giugno 2024 © Mafalda Maria Solza

Lo spettro della radicalizzazione ha portato l’amministrazione a vedere la religione musulmana come un nemico. Dall’ingresso dei ministri di culto alle difficoltà legate ai riti quotidiani, gli ostacoli sono tanti. Ma qualcosa si muove

Tratto da Altreconomia 272 — Luglio/Agosto 2024

Pregano, digiunano nel mese di Ramadan, consumano pasti leciti (halal) e si astengono da droghe e alcol (haram). O almeno questi sono i comportamenti che, a livello dottrinale, dovrebbero scandire la vita di una persona musulmana. Ma professare l’Islam in un contesto di privazione della libertà personale richiede spesso alcune deroghe. In carcere, scrive il sociologo Khalid Rhazzali in “Dall’Islam in Europa all’Islam europeo”, solo una minoranza osserva scrupolosamente gli orari delle cinque preghiere.

Non tutti i detenuti hanno inoltre la possibilità di acquistare privatamente la carne macellata con rito islamico e talvolta ritengono quindi giustificato il consumo di alimenti non halal. Capita infine che alcune persone ristrette usino sostanze con la promessa di purificarsi in un secondo momento.

Non si tratta però di una categoria omogenea: pur essendo spesso di genere maschile e con background migratorio, i detenuti musulmani hanno origini e tradizioni variegate. Provengono dal Maghreb, ma anche dall’Africa subsahariana, dai Paesi balcanici e del Sud-Est asiatico. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ottenuti da Altreconomia fino al 30 aprile 2024, negli istituti penitenziari erano presenti 7.365 detenuti di fede musulmana; una cifra che fa dell’Islam la seconda religione più diffusa in carcere dopo quella cattolica (34.130 fedeli).

Quella ufficiale non è tuttavia una stima molto accurata: prima di tutto, non è stata rilevata la fede religiosa di oltre 15mila persone ristrette; in più, accorpando il numero dei detenuti provenienti da Paesi tradizionalmente musulmani, il dato non solo sarebbe superiore alle diecimila presenze, ma sarebbe anche in crescita. Agli occhi di diversi studiosi, questa inesattezza rappresenta un indicatore dell’atteggiamento che è stato riservato dal Dap nei confronti dell’Islam.

Sono 7.365 i detenuti di fede musulmana presenti nelle carceri italiane. Un dato ufficiale, probabilmente al ribasso se si considera che non è stata rilevata la fede religiosa di oltre 15mila persone. L’Islam è comunque la seconda religione più diffusa nei penitenziari, dopo quella cattolica

Oltre a Rhazzali, anche Claudio Paterniti ha evidenziato nell’analisi “Figli di un dio minore. La libertà di religione”, pubblicata dall’associazione Antigone, come nel contesto penitenziario molti detenuti musulmani preferiscano omettere la propria fede religiosa per non attirare sospetti. Lo spettro della radicalizzazione islamista in carcere ha infatti portato il Dap a considerare l’Islam come un problema da sorvegliare e monitorare attraverso il Nucleo investigativo centrale (Nic), reparto specializzato della Polizia penitenziaria.

Negli ultimi anni è migliorata la formazione del personale. “Prima di sapere chi è la persona radicalizzata, bisogna conoscere chi è la persona musulmana”, spiega Souad Maddahi

Se da un lato questo approccio ha lo scopo di individuare tempestivamente i segnali di radicalizzazione, dall’altro si tratta di una misura di stampo securitario che rischia di comprimere ulteriormente la libertà di culto per le persone musulmane. Tuttavia, negli ultimi anni alcuni cambiamenti in positivo sono stati realizzati, specialmente nella formazione del personale. “L’anti-radicalismo ha avuto il pregio di mettere l’Islam al centro dell’attenzione -spiega ad Altreconomia Souad Maddahi, mediatrice interculturale e già docente di Islam e radicalizzazione presso la scuola di Polizia penitenziaria di Verbania-. Perché prima di sapere chi è la persona radicalizzata, bisogna conoscere chi è la persona musulmana. Gli allievi della scuola, ma anche gli operatori dell’area educativa sono stati formati sui comportamenti, sui pilastri della fede e sui rituali dell’Islam. Inizialmente anche il farsi crescere la barba o pregare durante la notte potevano essere letti come indicatori di radicalizzazione, mentre oggi il personale conosce meglio questa religione”.

Un altro risvolto delle politiche di contrasto al radicalismo negli istituti riguarda l’accesso dei ministri di culto. In origine, le organizzazioni islamiche presenti sul territorio potevano stipulare degli accordi con la direzione del carcere per costruire dal basso nuovi progetti. “Nella Casa circondariale Lorusso Cutugno di Torino -sottolinea sempre Souad Maddahi- l’Associazione islamica delle Alpi, di concerto con l’allora direttore Domenico Minervini, forniva assistenza spirituale e gestiva uno sportello d’ascolto rivolto ai familiari dei detenuti musulmani. Poi le cose sono cambiate e l’associazione non è più potuta rientrare perché era stato preferito un sistema dall’alto”. Alla fine del 2015, infatti, il Dap ha siglato un protocollo d’intesa con l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii) per autorizzare e monitorare l’ingresso negli istituti penitenziari degli imam, considerati al contempo potenziali veicoli dell’Islam radicale e figure chiave per promuovere la de-radicalizzazione. Implementato in via sperimentale in otto case circondariali, questo accordo è stato rinnovato a più riprese ed esteso sull’intero territorio nazionale.

“Non abbiamo indizi specifici di terrorismo islamico nelle carceri italiane”, ha dichiarato a fine marzo il ministro della Giustizia Carlo Nordio (a destra nella foto) che a inizio gennaio 2023 ha nominato Giovanni Russo (a sinistra) capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) © Gnewsonline

Nel 2020, inoltre, il Dap ha concluso intese analoghe con altre due organizzazioni: la Confederazione islamica italiana (Cii) e il Centro islamico culturale d’Italia (Cici). Ciononostante, come si evince dalle statistiche del Dap ricevute da Altreconomia, questi sforzi non sono stati in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze del culto musulmano: nel 2023 gli imam attivi nei 190 istituti penitenziari erano solo quaranta, concentrati nell’Italia centrale e settentrionale; le Regioni meridionali ne erano invece totalmente sprovviste. Quella di Biella è una delle tante case circondariali che, pur trovandosi al Nord, risulta priva di ministri di culto islamici. A fronte di questa mancanza, Riffi Abdelali, portavoce della moschea di Chiavazza, si sta adoperando affinché un imam della propria comunità possa entrare nel carcere biellese. “Siamo in contatto con l’Ucoii e abbiamo avuto un colloquio fruttuoso con il direttore e il comandante dell’istituto -spiega fiducioso Abdelali-. Per ora ci siamo limitati a consegnare alimenti marocchini e vestiti nel mese di Ramadan, ma in futuro vorremmo dare sostegno morale ai detenuti e guidare la preghiera del venerdì. Ho letto negli occhi di queste persone il bisogno di qualcuno della loro fede”.

“L’imam viene percepito come un ente esterno potenzialmente minaccioso: se non è parte del problema, non è neanche parte della soluzione” – Ibrahim Gabriele Iungo

Chi invece ha già avuto la possibilità di entrare in carcere nella veste di imam racconta in che cosa consiste nei fatti l’assistenza spirituale. Ibrahim Gabriele Iungo, ad esempio, ha prestato servizio a Torino per conto dell’Ucoii nell’Istituto penale minorile Ferrante Aporti e della Cii al Lorusso Cutugno e conosce bene le difficoltà che incontra un ministro di culto islamico in carcere. “Prima di tutto, l’imam non riesce a instaurare un rapporto continuativo né con il personale né con i detenuti: da una parte c’è una rotazione tra gli imam che accedono all’istituto, quindi non entra ogni settimana la stessa persona; dall’altra, il nostro apporto è confinato alla preghiera del venerdì e sono rari i momenti di scambio con i fedeli”. Esiste poi un problema con gli spazi dove esercitare le funzioni religiose. “Vengono messe a disposizione delle sale che non sono pensate per il culto musulmano -sottolinea Iungo-. La prima volta che sono entrato nel carcere minorile, mi è stata assegnata una stanza che aveva affissa alla parete un quadretto con la foto del Papa. Ho cercato di ottenere un’altra sistemazione, ma quel giorno non c’è stato verso. Successivamente ci hanno dato un’altra sala, ma credo più per motivi logistici”. In generale, riassume Iungo, “l’imam viene percepito come un ente esterno potenzialmente minaccioso: se non è parte del problema, non è neanche parte della soluzione”. Malgrado l’approccio securitario riservato all’Islam e l’accesso limitato dei ministri di culto, secondo la mediatrice interculturale Souad Maddahi, la solidarietà tra i detenuti musulmani è capace di ridurre l’afflizione della pena.

“Specialmente durante il mese di Ramadan, il desiderio di condividere e aiutarsi è molto sentito -spiega-. Nelle sezioni aperte a volte si organizzano delle tavolate nei corridoi a cui sono invitati tutti, anche i compagni di cella di altre religioni”. Inoltre la detenzione può rappresentare una possibilità di riscatto se vissuta da una prospettiva islamica. “Anche il profeta Yusuf, benedizione su di lui, è stato incarcerato e da tale esperienza, si racconta nel nobile Corano, ha tratto un’importante occasione per riflettere -conclude Maddahi-. Questo esempio risuona familiare ai detenuti musulmani e consente di vedere la privazione della libertà personale come una prova da superare in vista della vita eterna, oltre che un momento predisposto dal destino in cui potersi pentire del peccato e del reato commessi. Che poi questo succeda o meno è un’altra storia”.

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