Economia / Opinioni
Dal debito pubblico passa la battaglia ai fondi speculativi
Se una porzione non trascurabile delle risorse ferme sui conti correnti si traducesse in acquisti di titoli nostrani si avrebbero indubbi benefici. Ecco perché. La rubrica di Alessandro Volpi
C’è stato un momento nella storia italiana in cui il debito pubblico è stato collocato a tassi di interesse sostenibili grazie al risparmio degli italiani e in particolare degli emigranti.
Ciò è avvenuto nei primi anni del Novecento, quando la nostra economia ha conosciuto un significativo slancio, generando una riduzione almeno parziale delle disuguaglianze sociali e producendo un fondamentale sforzo di infrastrutturazione del Paese, con la modernizzazione dei servizi urbani, la nazionalizzazione delle ferrovie e la realizzazione delpatrimonio edilizio scolastico.
Giovanni Giolitti, in quell’occasione, operò persino una conversione forzata della rendita per alleggerire i conti dello Stato, confidando nella “fedeltà” dei risparmiatori. Una condizione in parte analoga si è verificata negli anni Sessanta e Settanta, quando l’esistenza di vincoli alla libera circolazione dei capitali obbligava di fatto i risparmiatori, qualora avessero voluto acquistare titoli di debito, a comprare quelli italiani, destinati così a pagare interessi assai contenuti.
Anche oggi sarebbe utile che una parte rilevante del risparmio nazionale venisse indirizzata verso la sottoscrizione del debito pubblico. In assenza degli acquisti della Banca centrale europea (Bce) e di una politica monetaria degna di questo nome, con le banche italiane già imbottite di titoli per oltre 360 miliardi di euro, se una porzione non trascurabile delle risorse ferme sui conti correnti si traducesse in acquisti di titoli nostrani si avrebbero indubbi benefici.
Il 13% del debito pubblico del nostro Paese in mano alle famiglie e alle imprese italiane nel 2023. L’anno precedente era il 6%
Il primo è rappresentato da una minore dipendenza dalle richieste, esose, dei grandi fondi che si sostituiranno alla cessata azione della Bce. Il secondo sarebbe quello di rendere il debito italiano meno sensibile alle scommesse che puntano sulle difficoltà delle finanze pubbliche del nostro Paese attraverso una miriade di strumenti di finanza derivata: una maggiore quantità in mano italiana, infatti, ne ridurrebbe la volatilità.
Il terzo beneficio si lega alla crescita del Prodotto interno lordo (Pil) che scaturirebbe dalla distribuzione degli interessi a compratori italiani e non più a operatori internazionali. C’è poi un ulteriore beneficio che discende da tassi di interesse più alti, pagati dal ministero dell’Economia e delle finanze, sui titoli comprati da una clientela retail italiana: la necessità per le banche di aumentare i tassi di rendimento dei propri titoli qualora vogliano trovare compratori. In pratica, se i tassi pagati dallo Stato ai risparmiatori italiani sono più alti, anche le banche dovranno remunerare maggiormente i risparmiatori, riducendo quell’inaccettabile divario tra gli interessi riscossi sui prestiti e quelli pagati sui depositi.
È un buon segno, dunque, che il debito nelle mani di famiglie e imprese italiane sia passato dal 6% del totale nel 2022 al 13% nel 2023, registrando una mole di acquisti per oltre 120 miliardi di euro, distribuiti tra più di due milioni di contratti. Naturalmente sarebbe auspicabile che in questa direzione si muovesse anche “l’industria” del risparmio gestito, che invece pare ancora orientata a comprare titoli azionari o a preferire il debito statunitense a quello italiano. Per battere la dipendenza, quasi monopolistica, dai grandi fondi finanziari internazionali, i risparmiatori italiani possono costituire una grande opportunità, in piena coerenza con il dettato della nostra Costituzione.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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