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Crisi climatica / Attualità

Inizia “La giusta causa” contro Eni. Che si affida a due “esperti” non indipendenti

© Greenpeace

Per difendersi dalla causa climatica intentata anche da Greenpeace Italia e ReCommon, la società fossile si avvale della consulenza di chi ha negato il riscaldamento globale o da anni collabora con multinazionali del calibro di Exxon e Bp. Intanto il bilancio 2023 del colosso conferma la sua dipendenza da gas e petrolio

Inizia il processo a carico di Eni sul clima. È in programma infatti il 16 febbraio davanti al tribunale di Roma la prima udienza de “La giusta causa”, l’azione civile intentata lo scorso 9 maggio da 12 cittadine e cittadini, Greenpeace Italia e ReCommon nei confronti di Eni, Cassa depositi e prestiti (Cdp) e ministero dell’Economia. In quella che è, a tutti gli effetti, la prima litigation sul clima nel nostro Paese contro un soggetto di diritto privato, i ricorrenti contestano a Eni il fatto di essere una delle aziende al mondo più impattanti in fatto di emissioni di gas serra, nonostante conosca da decenni i danni che lo sfruttamento delle fonti fossili causa al clima del Pianeta.

Nel tentativo di difendersi in giudizio, l’azienda leader in Italia nel settore dell’oil&gas ha deciso di avvalersi del supporto di due relazioni tecniche redatte dai consulenti presentati come indipendenti ma che in realtà -evidenziano le due organizzazioni- non lo sono affatto: Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, e Stefano Consonni, professore ordinario di Sistemi per l’energia e l’ambiente del Dipartimento di energia del Politecnico di Milano.

Un report pubblicato da Greenpeace e ReCommon alla vigilia de “La giusta causa” ripercorre i curricula e le dichiarazioni pubbliche in materia di clima e transizione energetica di Stagnaro e Consonni, evidenziandone le contraddizioni rispetto alla dichiarata indipendenza.

Il primo, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni (think tank di stampo “liberista” e “mercatista”) ha sostenuto nel corso degli anni posizioni dichiaratamente negazioniste sul clima “diffondendo anche in Italia teorie senza fondamento sui cambiamenti climatici; promuovendo duri strali contro il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) ovvero la massima autorità scientifica in materia a livello globale; intessendo una fitta rete di rapporti con le più note organizzazioni negazioniste globali con tanto di partecipazione a eventi di ‘divulgazione’ organizzati da think tank che da decenni lavorano per spargere dubbi sull’origine antropica dei cambiamenti climatici (se non addirittura per cercare di confutarla)”, scrivono Greenpeace Italia e ReCommon nel report.

Il secondo consulente è Stefano Consonni, professore ordinario di Sistemi per l’energia e l’ambiente del Dipartimento di energia del Politecnico di Milano, presentato come esperto “indipendente” malgrado le sue collaborazioni pluridecennali con le più grandi aziende globali dei combustibili fossili: dalla statunitense Exxon a Bp fino alla stessa Eni.

“Un legame profondo e consolidato, quello tra Consonni e il mondo delle società energetiche, che lo ha portato a fare consulenze nonostante il suo ruolo di docente universitario e dipendente pubblico”, si legge nel report. Nel 2021 il docente del Politecnico è stato condannato in primo grado dalla Corte dei Conti della Lombardia a risarcire 250mila euro l’ateneo di cui era dipendente, per aver svolto, senza poterlo fare, incarichi in favore di società profit.

“Si può ritenere attendibile, nell’ambito di un contenzioso climatico, la consulenza di chi ha spesso sposato in prima persona e diffuso posizioni negazioniste in fatto di cambiamenti climatici? Si può ritenere libero di giudizio un esperto chiamato a dare un parere in merito all’operato di una azienda fossile se questo stesso esperto ha ricevuto in passato compensi da questa stessa compagnia? -chiedono le due organizzazioni-. Ci auguriamo che il giudice rigetti le numerose e pretestuose obiezioni mosse da Eni e dalle altre parti e istruisca invece il processo, permettendo un ampio confronto che porti a un radicale cambiamento nelle strategie industriali dell’azienda, facendone un protagonista nel contrasto alla crisi climatica anziché uno dei principali responsabili”.

L’iter giudiziario si appresta a prendere il via proprio quando Eni presenta i risultati finanziari per il 2023, comunicando un utile netto pari a 8,2 miliardi di euro e lauti dividendi per i propri azionisti. Malgrado i continui annunci a base di greenwashing, la multinazionale continua a puntare principalmente su combustibili fossili come il gas, nonostante sia arrivato il momento di effettuare una reale transizione energetica e investire in rinnovabili. Greenpeace Italia e ReCommon chiedono perciò che Eni sia obbligata a rivedere la propria strategia industriale per ridurre le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, come indicato dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi centigradi e a rispettare l’Accordo di Parigi sul clima. Viene poi richiesto che il ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti adottino una politica climatica che guidi la loro rispettiva partecipazione nella società in linea con l’Accordo di Parigi.

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