Cultura e scienza / Approfondimento
Un podcast per riscoprire l’attualità di Francesco Rosi e dei suoi film
“Citizen Rosi” ricostruisce la vita e la carriera del regista autore di capolavori come “Le mani sulla città”, “Il caso Mattei” e “Cristo si è fermato a Eboli”. Un racconto prezioso per continuare a porsi le sue stesse, scomode, domande
Se non fosse in bianco e nero e i protagonisti avessero uno smartphone in mano sembrerebbe girato nel 2023: lo dimostra l’indignazione che si prova nel guardarlo perché si è consapevoli che non appartiene al passato”. Camilla Maino, autrice e podcaster, non ha dubbi: riguardando “Le mani sulle città” di Francesco Rosi -uscito nelle sale cinematografiche nel 1963- sembra di assistere al racconto dell’Italia di oggi. Conoscere i film e la storia del regista e sceneggiatore napoletano diventa quindi necessario anche per le nuove generazioni.
Così è nato “Citizen Rosi. Storia di un regista scomodo”, il podcast scritto da Camilla Maino e Silvia Baldetti, prodotto da Genio media per il Museo nazionale del cinema di Torino che in sei episodi ripercorre la vita del regista e le sue pellicole. “Un cinema in cui -spiega Baldetti- la scelta delle tematiche trattate, influenza profondamente lo stile cinematografico”.
Uno stile che è dato anche dalla scelta di coinvolgere attori non professionisti. Quando, all’inizio degli anni Sessanta, Rosi va a Portella della Ginestra (PA) per ricostruire la strage del primo maggio 1947 seleziona attori e attrici tra gli abitanti del paese. “Volevo cercare di avere tutta la verità di cui avevo bisogno richiamando la gente dei paesi vicini a fare quello che avevano fatto quel giorno lì”, ha spiegato in un’intervista lo stesso Rosi. E così agli spari che arrivano dalla montagna, gli “attori” reagiscono in modo naturale. “Scappavano, si calpestavano l’un l’altro, si buttavano per terra, cadevano, si rialzavano e gridavano -racconta in un contributo d’archivio ripreso nella seconda puntata del podcast-. Uscivano dalla scena, giravano intorno alla cinepresa per rientrare in scena e intanto mi tiravano i pantaloni dicendomi: ‘È tale quale, è tale quale’”.
Questo frammento del film “Salvatore Giuliano”, che prende il nome dal capobanda che ordinò la strage, racchiude al meglio l’approccio del regista alla materia da raccontare. “Parte dal neorealismo ma lo supera -spiega Baldetti-. Va nei luoghi in cui vuole girare il film e ci vive per settimane, mesi. Conosce la gente del posto, studia le persone e quello che accade in quei luoghi: spesso non prepara prima la sceneggiatura ma la scrive passo a passo”.
C’è un’incessante tensione, nell’approccio del regista, tra la dimensione d’inchiesta delle sue pellicole, di rappresentazione della realtà, e quella filmica. Rosi quindi studia il materiale esistente, rifiuta una narrazione emotiva e cerca di passare al vaglio di tutte le ipotesi avanzate sulla vicenda in oggetto -come ne “Il caso Mattei”- ma senza mai dimenticarsi che sta facendo cinema. “Le sue restano opere d’arte cinematografiche -aggiunge Maino- per esempio in ‘Cronaca di una morte annunciata’ si accorge che girare nella piazza ‘vera’ non renderebbe dal punto di vista filmico. E così sceglie di ricostruirla in modo da far percepire il perché degli accadimenti cruciali del film”.
Anche la decisione di affidare i personaggi ad attori non protagonisti non è assoluta. Nei suoi film si avvale anche di grandi professionisti: in “Cristo si è fermato a Eboli” è Gian Maria Volonté a interpretare Carlo Levi, autore del romanzo da cui è tratta la pellicola. “Possiamo dire che c’è un movimento a fisarmonica tra la realtà rappresentata e la verità cinematografica: non c’è sbilanciamento da una parte o dall’altro ma un muoversi costantemente sul filo”, sottolinea Baldetti.
“Rosi parte dal neorealismo ma lo supera. Va nei luoghi in cui vuole girare il film e ci vive settimane, mesi, conosce la gente del posto. Studia le persone e quello che accade in quei luoghi” – Silvia Baldetti
Sono numerosissimi i temi trattati dal regista: dall’abusivismo edilizio ne “Le mani sulla città” -con la celebre frase “le nostre mani sono pulite” da cui prenderanno il nome le inchieste giudiziarie contro un sistema di corruzione diffuso che coinvolgeva la politica e le imprese negli anni Novanta-, alla questione meridionale, dai grandi casi irrisolti (Enrico Mattei e Salvatore Giuliano) al tema del pacifismo, fino alla legalizzazione delle sostanze stupefacenti per sottrarre introiti alla criminalità organizzata. Materie diverse ma con alcuni file rouge che attraversano la filmografia di Rosi. “Il potere e l’effetto negativo che ha sugli uomini è sicuramente uno di questi”, spiega Maino che su questo aspetto ne sottolinea la “visione pessimistica” perché “coloro che sfidano questo potere alla fine muoiono”.
Proprio il tema della morte è l’altro tratto comune nella lunga carriera cinematografica del regista e sceneggiatore napoletano. Tanto che le due autrici hanno intitolato “La morte non mi piace” l’ultimo episodio del podcast. “C’è una contraddizione -spiega Baldetti- che è solo apparente tra l’insofferenza del regista rispetto al ‘morire’ e al fatto che in tutti i suoi film se ne parli. In realtà questo racconta di come il suo sia un cinema che indaga, che è utilizzato anche per cercare risposte a livello sia individuale sia collettivo. E così la ‘fine della vita’, così inspiegabile, diventa onnipresente”. Per le autrici del podcast l’obiettivo era arrivare ai non addetti ai lavori, a coloro che magari non hanno mai visto una pellicola di Rosi. “Non so se i suoi film oggi avrebbero raggiunto lo stesso successo avuto nel passato: chiedeva molto ai suoi spettatori -spiega Maino- ma è necessario conoscere le sue opere”.
Mentre sta girando “Cadaveri eccellenti”, tra il 1975 e il 1976, appunta nel suo diario una frase di Elio Vittorini che per l’autrice riassume il senso più profondo della sua denuncia: “Proteggere l’uomo dalle sofferenze, invece di limitarsi a consolarlo”. Era questo l’approccio della classe politica che Rosi voleva denunciare. Insomma, “bravo ma scomodo”. È questa “etichetta”, apparsa in un articolo di giornale del 1963, che costerà a Rosi grandi fatiche. “Lui sceglieva di trattare i temi da cui tutti scappavano”, sottolinea Maino. E questo gli è costato in termini di riconoscimenti, quando era in vita, e anche di diffusione delle sue pellicole sia in Italia sia altrove. Non vi è mai stata una censura esplicita nei suoi confronti ma è emblematico il destino de “Il caso Mattei”, pellicola del 1972 che ricostruisce la morte in un incidente aereo dell’allora presidente dell’Eni Enrico Mattei.
“Non so se i suoi film oggi avrebbero raggiunto lo stesso successo avuto nel passato: chiedeva molto ai suoi spettatori. Ma è necessario conoscere le sue opere” – Camilla Maino
Nonostante la vittoria della Palma d’oro al Festival di Cannes è stato trasmesso dalla Rai sempre in tarda serata mentre negli Stati Uniti la sua diffusione nelle sale è stata limitatissima. “Ho fatto film sulla mafia e sulla camorra ma non ho mai ricevuto minacce. Per Mattei, invece, le ho avute -ha raccontato il regista in un’intervista del 1998-. Sono state esplicite, molto esplicite”. E forse il prezzo da pagare per questa “scomodità” è stato anche la difficoltà nel girare nuove pellicole.
L’ultimo film di Rosi è del 1997, ben 18 anni prima della sua morte. Ne “La tregua”, ispirato all’omonimo romanzo di Primo Levi, il regista porta la sua troupe in Ucraina: vuole raccontare dei campi di concentramento, del rischio che la loro esistenza e la guerra non siano affare del passato ma possa tornare un tema di attualità. Alla fine, il protagonista riesce a tornare a casa. Forse un cambio di prospettiva, all’ultimo respiro cinematografico, del Rosi “pessimista”. Per l’attualità della guerra, su quei territori, la lungimiranza del regista si conferma tragicamente vera. Un motivo in più per continuare a riflettere sui grandi interrogativi posti da Rosi. “Le domande devono continuare a vivere nello spettatore -spiegava il regista- anche quando il film si è concluso. Ho infatti smesso di mettere le parole ‘La fine’ in chiusura perché ritengo che i film non debbano finire ma continuare a crescere dentro di noi”.
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