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La mano illiberale che ha scritto il decreto contro le feste popolari autogestite

© Aleksandr Popov - Unsplash

E se chiamiamo i “rave party” “feste popolari autogestite e gratuite” o “moderni riti collettivi”, come molti etnografi consigliano? Ecco che lo scenario cambia e l’idea di intervenire sul codice penale per impedirli appare sotto altra luce. Quella di chi non sopporta le libere scelte altrui. Il commento di Lorenzo Guadagnucci

Le parole -specie se poco conosciute- a volte confondono le idee. Dici “rave party” e pensi a droghe e overdose, a sbandati di ogni tipo, a pericoli e violenze, a losche trame di misteriosi organizzatori, e così una legge che li criminalizza pare quanto meno ragionevole, se non addirittura necessaria. Se però chiamiamo quegli stessi eventi “feste popolari autogestite e gratuite” o “moderni riti collettivi”, come molti etnografi consigliano, ecco che lo scenario cambia e l’idea di intervenire sul codice penale per impedire tali feste appare sotto un’altra luce.

I giuristi stanno mettendo a fuoco le molte pecche del decreto legge appena approvato dal Governo Meloni: una definizione a dir poco approssimativa (si puntano i famigerati e misteriosi “rave party” ma senza nominarli), tanto da far venire il dubbio che la norma possa essere usata anche per manifestazioni politiche, sindacali e studentesche; un’entità della pena massima (sei anni) che pare sproporzionata, a meno che non sia un espediente -fatto ancora più grave- per ammettere l’uso delle intercettazioni telefoniche (e via chat) durante le indagini, possibili per reati punibili con cinque e più anni di detenzione; l’uso a prima vista inopportuno dello strumento del decreto legge; un impianto normativo che sembra confliggere con l’articolo 17 della Costituzione, pensato e scritto con spirito di grande liberalità, visto che il “diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi” può essere limitato solo “per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica”.

Ma c’è un altro punto da considerare, prima ancora di ogni valutazione tecnica, ed è proprio lo statuto di tutte quelle forme di espressione pubblica, di libertà vissuta collettivamente, di manifestazione del proprio essere e del proprio pensiero che escono dai canoni prevalenti nella società. I “rave party”, o “feste popolari autogestite e gratuite”, possono anche non piacere per la loro carica trasgressiva; si possono biasimare la musica, le danze, gli accampamenti, il consumo di alcol e stupefacenti; si può pensare che siano feste inutili e sbagliate, ma perché criminalizzarle? Perché introdurre nel codice penale un divieto ad hoc, preventivo e generale, nonostante esistano già norme adeguate a punire i reati eventualmente commessi di volta in volta?

La spiegazione si può trovare alzando appena lo sguardo. Viviamo una stagione di grandi incertezze e di altrettanto grandi malesseri in seno alle nostre democrazie, scosse dalle emergenze globali e da una crisi di credibilità sempre più pronunciata, tanto che in Italia oltre un terzo dei votanti, il 25 settembre scorso, ha rinunciato a presentarsi ai seggi. Perciò chi governa -e specie chi lo fa dopo aver vinto elezioni condotte sotto lo slogan “Dio, patria, famiglia”- gioca tutte le sue carte sul tavolo (in realtà truccato) dell’eterna emergenza sicurezza. È così che alla solita falsa emergenza immigrazione si risponde (ma non è una vera risposta, semmai una pretestuosa iniziativa) sbarrando la strada alle navi di soccorso; è così che si alzano i manganelli contro gli studenti alla Sapienza e che si alzano stridule grida di allarme per gli attivisti che imbrattano i vetri (non le tele, i vetri) di celebri quadri per richiamare l’attenzione sul collasso ambientale, è così che si espongono al rischio di pene abnormi (vedi i vecchi “decreti Salvini”) gli attivisti che fermano per qualche minuto il traffico al fine -ancora- di scuotere tutti dall’apatia rispetto alla crisi climatica.

La legge contro le “feste popolari autogestite e gratuite” è dunque una legge bandiera, concepita nella logica del cosiddetto populismo penale, ma non può essere sottovalutata, perché fa parte di un progetto ideologico e politico sempre più chiaro, che ha come sbocco ciò che in altre parti d’Europa (non a caso modello dei nuovi governanti italiani) chiamano da tempo “democrazia illiberale”.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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