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“One day One day”, il film che racconta la vita all’interno del ghetto di Borgo Mezzanone

© Giacomo Ostini

Un anno di vita nel campo informale più grande d’Italia, dove vivono oltre 3mila persone in condizioni di estrema vulnerabilità e ricattabilità. Ne racconta la complessità il lavoro sul campo di quattro giovani filmmakers. Un documentario che gli adulti non vogliono vedere e che sta invece girando tra gli studenti, da Nord a Sud

Enough! Non importa quanto sforzi facciamo, non faremo mai parte del sistema. E a un certo punto ci sarà un’esplosione”. Sono lucide quanto tragiche le parole di Rasbamba, che spiega che cosa significa vivere a Borgo Mezzanone, il più grande ghetto d’Italia che da vent’anni esiste a Sud-Est di Foggia. E anche se dopo quelle parole un’esplosione è avvenuta realmente, per fortuna senza provocare vittime, nel ghetto c’è anche chi la pensa diversamente. Come Muhammed che da quell’incidente recupera ferri vecchi da rivendere agli italiani “con cui fanno una società migliore”, pagandoli a lui 0,8 centesimi al chilogrammo. C’è Abu che vive in macchina ma nonostante tutto ama l’Italia che lo ha accolto. Oppure Jusef, che gestisce la lavanderia del ghetto, da cui ricava il necessario per mantenere anche il suo coniglio. Sono diverse e complesse le storie degli abitanti di Borgo Mezzanone, raccontate nel documentario “One day one day” , tutte però accomunate da una condizione di cosiddetta “illegalità”, simile ad altri 500mila persone in Italia che vivono in un vortice di povertà, sfruttamento e lotta per la sopravvivenza.

Co-prodotto con Willmedia, i filmmakers di A thing by hanno trascorso un anno e mezzo nel ghetto per capirne la vita all’interno. Un campo informale dotato di bar, negozi, parrucchieri, meccanici, che accoglie al tempo stesso oltre 3mila persone. Senza voce narrante, direttamente con le voci e i volti dei residenti, “il film non vuole essere un’inchiesta, né un racconto su come la verdura e la frutta finiscono sulle nostre tavole. Abbiamo voluto piuttosto offrire uno sguardo umano e onesto su una realtà totalmente sconosciuta nel panorama pubblico italiano”, spiega Giacomo Ostini, 26 anni, uno dei producer del film, che Altreconomia ha incontrato a Bergamo a margine di una proiezione all’interno della rassegna “Open your Eyes” del cinema Conca Verde. L’idea del film è nata due anni fa, racconta Giacomo, nel periodo in cui a Milano si scendeva in piazza al grido di Black Lives Matter. “Mentre manifestavamo contro il razzismo relativo a un caso importante ma lontano da noi, non stavamo facendo abbastanza per situazioni molto più vicine. Eppure di Borgo Mezzanone ce ne sono anche in Lombardia, Veneto, Liguria, ma quello pugliese è di sicuro il più grande. Quindi abbiamo deciso di partire per provare a capirlo”.

Così nell’estate del 2020 Giacomo, Matteo, Olmo e Marco (gli altri filmmakers), arrivano per la prima volta nel ghetto, e poco alla volta iniziano a frequentarlo regolarmente, presentando ai residenti l’idea di raccontare un anno della loro vita. “All’inizio non è stato affatto facile”, ricorda Giacomo. “Non entrano tutti i giorni dei ‘bianchi’, e le telecamere non sono ben viste perché tanti giornalisti in passato sono andati lì per un breve servizio e per poi andarsene subito”. Servivano dunque credibilità e fiducia, che arrivano vivendo nel campo, spinti dalla voglia di capire. È così che tra i ragazzi di A thing by e gli abitanti del ghetto nasce un rapporto, la cui intimità emerge in diverse scene del film, fatto di dialoghi tra il regista (Olmo) e i diversi protagonisti. Parlano dei loro viaggi per arrivare in Italia, le sofferenze e la depressione quotidiane, ma c’è anche chi riflette sull’amore, chi presenta il suo animale domestico o chi danza da solo al bar. “Con alcuni di loro è nata un’amicizia. E credo che ci siamo riusciti perché ci siamo dati del tempo, e alla fine abbiamo rotto le barriere”. Nel documentario a un certo punto compaiono anche quelle fisiche, di barriere, che pur se sgangherate circondano ancora l’ex Cara adiacente al ghetto, oggi abbandonato e al cui interno vivono spesso gli ultimi arrivati, i più giovani o chi non può ancora permettersi una propria abitazione. Fuori dall’edificio ecco che spunta anche il paradosso di Borgo Mezzanone, di cui nel film non c’è traccia, ma che Giacomo ben evidenzia quando gli si chiede dove siano le autorità. “Fuori dal ghetto c’è una caserma dei carabinieri. Le istituzioni sanno ma non fanno nulla. Da troppo tempo il nostro Stato dimostra di non sapere più accogliere ed ecco che ci ritroviamo in una situazione di mancanza di diritti umani”.

Che su certe realtà regni l’indifferenza piuttosto che l’indignazione risulterà evidente anche alla fine della realizzazione del film, quando i produttori lo inviano alle case di distribuzione. Nonostante gli apprezzamenti, nessuna decide di acquistarlo. “Dai responsi ci hanno fatto capire che una storia del genere non vendeva. Ma non ci siamo affatto scoraggiati, e così ci siamo inventati il “vietato agli adulti”. Così da marzo di quest’anno parte il tour di proiezioni esclusive negli istituti scolastici superiori, tutto a spese degli autori. Da Nord a Sud, “One day one day” inizia a girare tra gli studenti, “che non solo hanno mostrato grande interesse, rabbia, voglia di non accettare questa realtà ma soprattutto ci hanno dato grande speranza. Se queste sono le premesse, forse allora il Paese è in buone mani”. L’ottimismo che filtra nelle parole di Giacomo ricalca la scelta del titolo del film. Quel “one day, one day” ripetuto spesso, scritto anche su un muro del ghetto, ad invocare il giorno tanto atteso in cui tutto cambierà. Quando ci saranno i regolari contratti di lavoro, che nel film vengono richiesti da Ali a un caporale, che li nega perché “è difficile in Italia, anche quelli del Nord facevano così con noi del Sud”. Quel giorno in cui ci si crede ancora, come Abu, che decide alla fine di lasciare il ghetto, “per non impazzire, a causa del sistema”. Mentre per Joseph, in Italia da 28 anni, vissuti in uno stato di semi-permanente illegalità e di cui non ricorda molto, quel giorno sarà uno dei tanti, in cui almeno sperare di non avere più disturbi mentali, malessere diffuso nel ghetto. Infine quel giorno appare molto lontano per chi nel film non c’è: le donne, che oltre alla prostituzione non sembrano avere altre possibilità. “Molte di loro lavorano in un night club del campo frequentato anche dai ‘bianchi’. È un’altra storia assurda ma abbiamo scelto di non raccontarla perché non siamo riusciti a creare un legame stretto anche con loro, e quindi poter fare un racconto onesto sulle loro vite”. La complessità di Borgo Mezzanone riflette quella di un Paese in cui si fa fatica a credere che simili realtà possano esistere. “Fino a due anni fa tutto ciò era invisibile anche per noi -ammette Giacomo- ma se c’è una cosa che abbiamo imparato da quest’esperienza è che i problemi vanno visti, affrontati, perché solo così si possono risolvere. Se invece volgi lo sguardo dall’altra parte, il ghetto si allarga”.

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