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L’Orchestra dei braccianti che mette in musica il lavoro nei campi

Un momento del concerto dell'Orchestra dei braccianti © Terra Onlus

Il complesso è formato da diciotto artisti provenienti da nove Paesi, alcuni dei quali vivono ancora nei ghetti. Le note raccontano le loro storie, per far conoscere e denunciare il problema del caporalato e dello sfruttamento

Tratto da Altreconomia 210 — Dicembre 2018

“Non posso fare a meno di pensare che, finito il concerto, c’è qualcuno di noi che torna a dormire nei ghetti”, dice Marzouk. Tornano dove ancora comanda lu soprastante, “il sorvegliante”, come nella canzone del compositore foggiano Matteo Salvatore. “Non dobbiamo bere, non dobbiamo bere, dobbiamo lavorare”, cantava nel 1968. Come Adams, originario del Gambia, che vive nel ghetto di Borgo Mezzanone, a Foggia. Suona nell’Orchestra dei braccianti insieme a Marzouk Mejri, polistrumentista tunisino che vive a Napoli da 23 anni. “Io sono stato fortunato e sono riuscito a cambiare la mia vita -spiega Marzouk-. Per questo continueremo a cantare: per sostenere questi ragazzi nella ricerca di una vita migliore”. Dice che la musica della loro orchestra è “figlia della terra. Molti di noi conoscono il lavoro dei campi: siamo stati -e alcuni lo sono ancora- braccianti, o abbiamo conosciuto questa esperienza nei nostri paesi d’origine”.

Storie che, trasformate in note, oggi danno voce alla libertà e ai diritti con l’Orchestra dei braccianti, “braccio musicale” di “Terra! onlus”, come lo definisce la project manager dell’associazione, Giulia Anita Bari. L’orchestra -che ha debuttato lo scorso 9 novembre a Cerignola (FG)- riunisce 18 musicisti, braccianti e contadini di nove diversi Paesi (Italia, Francia, Gambia, Ghana, Nigeria, Libia, Tunisia, India e Stati Uniti) e vuole far conoscere il problema del caporalato e dello sfruttamento in agricoltura attraverso la musica.

L’idea di portare la musica nei ghetti è nata sei anni fa, quando il cantautore italo-parigino Sandro Joyeux, ramingo per le campagne d’Italia, suona con la sua chitarra negli insediamenti informali dei lavoratori stranieri. “È lì che l’ho incontrato -racconta Giulia, che è anche violinista e fa parte dell’orchestra- e poco dopo abbiamo realizzato il ‘Fuori dai ghetti tour’, usando la musica come un’occasione per i migranti per uscire dall’isolamento”. Un anno fa “Terra! onlus” ha avviato una vera e propria progettualità e negli ultimi sei mesi, insieme ad Alessandro Nosenzo, cantautore e coordinatore artistico dell’orchestra, è partita la ricerca e il lavoro di registrazione nelle baracche.

“La costruzione del progetto è stata complessa, perché un obiettivo è anche garantire un accompagnamento professionale e creativo ai ragazzi che suonano con noi, affinché possano costruirsi un futuro diverso. Per questo abbiamo riallacciato relazioni con tanti artisti che avevamo incontrato in passato, che hanno fatto della musica la loro professione”. Tra questi c’è Marzouk, che ha una storia profondamente legata alla terra. “Quando sono arrivato a Napoli ho raccontato a un amico agronomo la mia vita in Tunisia, di quando aiutavo mio padre nei campi e di come mia madre preparava il cous cous, acquistando il grano dagli anziani di un villaggio che custodivano le varietà tradizionali”. Fu un racconto fortunato: oggi le “Antiche varietà di grano di Lansarin e Gaffaya” sono l’unico presidio tunisino di Slow Food e si possono assaggiare anche in Italia, durante gli spettacoli dell’associazione “Arts Migrants”, fondata a Napoli da Marzouk.

Sono queste le radici della sua musica, che s’intrecciano con quelle degli altri componenti dell’orchestra per cantare insieme “la nuova schiavitù”, come dice Alessandro Nosenzo. “Mi vengono in mente i canti degli afroamericani nelle piantagioni di cotone nell’Ottocento. Non c’è molta differenza con la nostra Orchestra dei braccianti: né da un punto di vista sociale, né musicale”.

“Sono rimasta stupita dalla reazione degli studenti: si sono subito intesi con i due rapper africani. Condividevano un codice che ha abbattuto tutte le barriere” – Giulia

La loro musica, infatti, fonde la tradizione dei canti dei lavoratori italiani nel dopoguerra con l’esperienza africana, “dando così voce a un mondo che si sta trasformando in senso multiculturale”, spiega Alessandro. E che si apre, per portare i talenti fuori dai ghetti. Tra i brani, ce ne sono anche alcuni originali, scritti dai ragazzi della Capitanata o da chi vive nei ghetti, usando un linguaggio che arriva facilmente anche ai più giovani. “Alla prima a Cerignola sono rimasta  stupita dalla reazione degli studenti delle scuole medie e superiori: si sono subito intesi con i due rapper africani della nostra orchestra. Condividevano un codice che ha abbattuto tutte le barriere -osserva Giulia-. Per noi è stata una risposta inaspettata. Ci ha dato molta speranza”.

Raccontare, ascoltare e comprendere lo sfruttamento del lavoro verso una cittadinanza globale e attiva è proprio l’obiettivo del progetto più ampio in cui s’inserisce anche l’Orchestra dei braccianti: “Voci migranti”, sostenuto dall’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo (aics.gov.it). Il progetto, che durerà fino all’autunno 2019, userà diverse forme di comunicazione per sensibilizzare un’ampia popolazione tra Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Puglia e Campania sul problema del caporalato.

“La prima fase, che stiamo concludendo, è dedicata alla formazione”, spiega Chiara Lusetti della ong Africa ‘70, capofila del progetto (africa70.org) che coinvolge una rete di 15 partner, tra cui Altreconomia. “Abbiamo realizzato dei corsi di orientamento al diritto del lavoro per 45 migranti, in collaborazione con la Flai Cgil, con un focus particolare sul lavoro agricolo e stagionale”. Nel frattempo, in collaborazione con la Scuola Holden, sono state raccolte delle testimonianze di migranti sul tema del caporalato. Cinque narratori della Scuola sono stati nei territori del progetto e dalle interviste fatte hanno sviluppato dei racconti. Cinque di questi saranno reinterpretati per immagini dalla Scuola del fumetto di Milano.

Un’altra parte del progetto, coordinata dal laboratorio “Escapes” dell’Università degli studi di Milano, prevede la realizzazione di un’indagine sociale e politica del lavoro nero e del caporalato tra i migranti. “Vogliamo approfondire le filiere dove meno si parla del problema del caporalato, per esempio l’edilizia, l’industria manifatturiera o la carne”, spiega Chiara. La ricerca sarà pubblicata la prossima primavera con Altreconomia. Successivamente, con i materiali prodotti nelle diverse azioni di “Voci migranti”, saranno organizzati dei percorsi di formazione nelle scuole e nei centri giovanili, incontri di approfondimento per i cittadini, laboratori di teatro dell’oppresso e anche delle lezioni universitarie aperte, condotte dai migranti stessi.

Per i ragazzi incontrati sui territori dagli scrittori della Scuola Holden non sempre è stato facile raccontarsi. A San Casciano in Val di Pesa (FI), Alessio Spinelli ha incontrato tre migranti in un centro di accoglienza. “Inizialmente erano molto reticenti al dialogo, anche se poi, piano piano, si sono aperti. Non tutti conoscevano la lingua italiana, altri si esprimevano a monosillabi: per ore ho raccolto gesti, piccole parole e pezzi di frasi”. Anche Jolanda di Virgilio ha avuto un’esperienza simile a Parma. “Quando, a fatica, queste persone mi hanno raccontato le loro storie di sfruttamento nel lavoro, ho avuto l’impressione che ci fosse una mancanza di percezione di quello che gli succedeva -osserva-. Si ritenevano comunque tra i fortunati che potevano lavorare. Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che c’è ancora tanto bisogno di formazione, prima di tutto perché cresca la consapevolezza rispetto a cosa significhi vivere una vita dignitosa”. A Modena, invece, Jolanda ha incontrato un ghanese che aveva lavorato nella filiera della carne: “Ha una forte coscienza dello sfruttamento subìto, a cui si era ribellato”, racconta. “Le tematiche sociali non fanno simpatia, poiché ci obbligano a una messa in discussione e spesso sono trasmessi con un fine moralistico che allontana le persone -aggiunge-. Per questo la forma del racconto è preziosa nell’aiutarci a parlare di questi temi: veicola una storia che arriva a tutti, senza che il lettore si senta giudicato”. Anche per questo, secondo Alessio “è fondamentale che questa narrazione non resti a uso esclusivo degli addetti ai lavori del progetto”. I materiali prodotti da “Voci migranti” saranno diffusi attraverso i social e online. “Magari potremmo farne un libro -suggerisce-. Bisognerà vedere quale strada prenderanno questi racconti”. Un’altra storia di viaggi e migrazioni, questa volta fatta di parole.

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