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Diritti / Reportage

Ritorno al ghetto di Borgo Mezzanone, tra condizioni precarie e forme di socialità

L'insediamento di Borgo Mezzanone (FG) © Diego Saccora

A Foggia resiste ancora l’insediamento in cui vivono migliaia di persone giunte al termine di un crocevia di rotte tra il Mediterraneo o i Balcani. Un luogo dal quale leggere le politiche europee e lo sfruttamento economico dei migranti. E cogliere similitudini con i campi greci o gli “squat” bosniaci. Il racconto di Diego Saccora

Quello di Borgo Mezzanone è uno degli undici insediamenti nella provincia di Foggia dove vivono migliaia di migranti (provenienti soprattutto da Senegal, Gambia e Nigeria, ma anche da Marocco, Pakistan e Afghanistan) che sono giunti in Puglia al termine di un crocevia di rotte che attraversano il Mediterraneo o i Balcani. C’è chi è si trova qui come lavoratore stagionale, chi ci vive da anni, chi è appena arrivato e ha i documenti scaduti o non li ha affatto. C’è chi una volta uscito dai sistemi di accoglienza non ha trovato alternative e quella di vivere nel ghetto gli è sembrata la scelta più plausibile. C’è chi ha deciso di restare a Borgo Mezzanone perché qui si è qualcuno e ha trovato (accanto a un sistema di coercizione) anche una qualche forma di welfare e di supporto comunitario, oltre a una protezione dagli agenti esterni, tra cui uno Stato che non tutela ma reprime, insegue ed espelle.

Per arrivare all’insediamento -che abbiamo visitato a metà ottobre- è necessario attraversare i campi percorrendo un tratto di strada che definire dissestata è un eufemismo: spesso è arduo avvicinarsi, soprattutto dopo le piogge battenti, anche per le ambulanze o altri mezzi. Le abitazioni sono state costruite assemblando i materiali più disparati: vecchie porte, assi e materassi, altre sono costruite in mattoni, altre ancora riprendono le vecchie strutture costruite nell’area quando era ancora in funzione pista di atterraggio militare usata durante la Seconda Guerra mondiale e, più recentemente, verso la fine degli anni Novanta per la partenza degli aerei diretti verso il Kosovo.

“La pista” è il nome con cui tutti chiamano questo posto, un luogo dove si trovano anche dei container adibiti a foresteria: in passato, infatti, le autorità regionali avevano messo in atto un progetto per istituzionalizzare l’informalità, anche attraverso il costante pattugliamento di veicoli dell’esercito e volanti dei carabinieri.

A lato della pista e della foresteria sorge il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo (Cara), una delle tante strutture di “accoglienza” che sorgono in mezzo al nulla e dove vivono attualmente tra le 150 e le 200 persone. Ghettizzazione e isolamento sono due elementi facili da rilevare: il paesino di Borgo Mezzanone, a qualche centinaio di metri di distanza, è il centro abitato più vicino per chilometri e il numero dei suoi abitanti è inferiore a quello dello stesso Cara.

Tornano alla mente campi come quelli di Moria (sull’isola di Lesbo, in Grecia) dove, pur con la presenza di organizzazioni nella gestione generale, vi si trovavano altre forme di regolamentazione e figure di controllo, o Velika Kladuša (in Bosnia ed Erzegovina) dove non erano presidi di Ong riconosciute ma solo team mobili e per il resto ci si rivolgeva ad altre “agenzie” e al sostegno di attivisti e volontari. Ma il pensiero va anche al campo di Kikinda (nel Nord della Serbia, al confine con la Romania) che, pur essendo un centro governativo, si trova nel mezzo di un territorio a uso agricolo: per questo molti degli abitanti nel campo vengono impiegati dalle aziende attive nell’area (sia realtà locali sia imprese a management internazionale, anche italiano).

Borgo Mezzanone © Diego Saccora

Se le prime due realtà presentano delle assonanze con Borgo Mezzanone per questioni legate all’organizzazione e gestione dell’insediamento come luogo di vita e alla regolamentazione interna, come lo sviluppo di esercizi (bar, ristoranti, barbieri, meccanici), il terzo presenta più similitudini per la funzione di luogo di riposo per lavoratori stagionali senza contratto, tutele e diritti, che comunque per la maggior parte si sposteranno in seguito. Anche il turnover è quindi una componente similare.

È verosimile pensare che una stessa persona possa aver attraversato questi Paesi e vissuto in questi campi nel corso del suo percorso migratorio. Un viaggio fatto di sfruttamento occupazionale, invisibilità documentale, precarietà esistenziale. Viene da chiedersi se il traffico non rappresenti una forma alternativa e parallela di viaggio (in cui la percentuale di rischio è proporzionale all’illegalità della pratica) per permettere ai lavoratori e lavoratrici informali di spostarsi nonostante legislazioni avverse, sebbene poi a giovarne siano le economie di quegli stessi Paesi in cui sono state promulgate. E dove, chiaramente, chi ha maggior convenienza e trae profitti non sono certo le singole persone in movimento, vittime di diversi livelli e angolazioni di sfruttamento transnazionale.

© Diego Saccora

Borgo Mezzanone, Moria, Velika Kladuša, Kikinda sono anche luoghi di socialità dove altro può generarsi: amicizie, confronto politico, idee. Spesso chi vive in appartamenti in paesini isolati in qualche Lander tedesco, dopo anni di confinamento in campi finanziati dall’Unione europea e respingimenti a ogni confine, racconta di quanto gli manchi il vivere comunitario del campo. Un contesto per certi versi più somigliante a quelli dei Paesi di origine e dove, nonostante le condizioni di vita inumane, c’era vicinanza tra le persone, relazioni instaurate durature nel tempo, scambio di storie personali, sogni e prospettive concrete per uscire da una situazione comunque non auspicata.

In questi giorni di ottobre non abbiamo scoperto nulla che non esistesse già. Ma se viaggiare per l’Iran, la Turchia o il Kurdistan è fondamentale per comprendere più a fondo le condizioni di partenza o di spostamento prima di arrivare in Europa, conoscere realtà come Borgo Mezzanone lo è altrettanto per comprendere la linea di continuità sulla quale avanzano, in bilico, le persone in movimento. Verso una permanenza comunque precaria, scomoda, violenta, che non permette di sentirsi mai arrivati ma, anzi, spinge e costringe a ripartire.

Diego Saccora, operatore sociale, è membro dell’associazione “Lungo La Rotta Balcanica”. È co-autore del libro “Lungo la rotta balcanica. Viaggio nella storia dell’umanità del nostro tempo”, infinito edizioni (2016) nonché parte attiva della rete “RiVolti ai Balcani”

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