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L’apartheid di genere contro le donne afghane e gli interessi di chi vuol legittimare i Talebani

© farid-ershad - Unsplash

È grazie alla resistenza delle donne in Afghanistan che la battaglia per rendere l’apartheid di genere un crimine contro l’umanità è ora all’ordine del giorno a livello internazionale. Il punto però è non delegare il tema a quei governi occidentali che hanno abbandonato il Paese nelle mani del regime. L’analisi di Beatrice Biliato del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

In occasione della Giornata internazionale della donna dell’8 marzo di quest’anno le istituzioni internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani si sono premurate di confermare il loro sostegno alle donne afghane oppresse dal regime dei Talebani, usando il termine “apartheid di genere” per definire la discriminazione esistente in Afghanistan e in Iran.

Ma l’ex parlamentare indipendente afghana Belquis Roshan, nell’incontro con il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane avvenuto in occasione della sua visita in Italia ad aprile, ha raccomandato di non farsi “rubare la battaglia per il riconoscimento dell’apartheid di genere dalle organizzazioni internazionali e neanche dall’Onu”. Perché questa presa di posizione? Che cosa intende?

Da un paio d’anni i Talebani, proibendo l’istruzione alle ragazze e il lavoro alle donne e dando il via a un susseguirsi sempre più misogino e violento di proibizioni e limitazioni, hanno mostrato chiaramente non solo di non essere cambiati rispetto al loro passato governo -come avevano voluto credere gli Stati Uniti nell’ambito degli Accordi di Doha del 2020- ma anzi di fare della discriminazione delle donne un aspetto cardine del loro dominio. Da più parti si è cominciato a parlare allora di “apartheid di genere” e dell’opportunità che sia riconosciuto dalla legislazione internazionale come un crimine contro l’umanità.

Dato che appare sempre più illusoria la possibilità di ottenere dai Talebani il rispetto dei diritti delle donne in cambio di aiuti economici, si pensa di fare pressione su di loro attraverso i tribunali e il diritto internazionale.

Se tutti gli attivisti e i sostenitori dei diritti delle donne afghane sono concordi nel definire il sistema di oppressione dei Talebani come un “apartheid di genere” in quanto non siamo di fronte a violazioni occasionali ma alla sistematica e istituzionalizzata segregazione delle donne e alla privazione dei loro diritti proprio in quanto genere considerato inferiore, diversi sono gli approcci che si possono avere per affrontare il problema.

Considerata l’entità e la gravità dell’oppressione che operano sulle donne, i Talebani potrebbero già essere perseguiti dalla Corte penale internazionale (Cpi) per il reato di persecuzione di genere. Lo Statuto di Roma della Cpi considera infatti il reato di persecuzione di genere come un crimine contro l’umanità, dove “persecuzione” si ha con “la privazione intenzionale e grave dei diritti fondamentali a causa dell’identità del gruppo o della collettività” e con “genere” si intende “i due sessi, maschile e femminile, nel contesto della società”. Coglie quindi la specificità di questo crimine, ma come atti individuali e compiuti su individui, non come azioni di un governo che opera consapevolmente e sistematicamente contro un gruppo in quanto genere distinto.

Come sostengono molti esperti, però, la definizione di persecuzione di genere non coglie pienamente la natura dell’oppressione subita dalle donne e dalle ragazze in Afghanistan e Iran. Il reato di apartheid, invece, affronta le cause più profonde. La Convenzione internazionale sulla repressione e la punizione dell’apartheid lo definisce come segregazione e discriminazione razziale in un contesto di regime istituzionalizzato di dominio da parte di un gruppo razziale su qualsiasi altro, attuato con l’intenzione di mantenere quel regime.

Quindi nel reato di apartheid si ipotizza la responsabilità dello Stato, ma non si contempla il genere come motivo di discriminazione, solo l’etnia. D’altra parte la Cpi può giudicare e condannare solo le singole persone, ai sensi del diritto penale internazionale che considera responsabili i soggetti, anche per i crimini di gruppo, come è stato ad esempio nel processo di Norimberga. La Cpi sta indagando dal 2006 sulle atrocità commesse in Afghanistan, esaminando i crimini commessi da tutte le parti coinvolte nella guerra del ventennio di occupazione, a cominciare dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. E che, però, potrebbe includere anche i crimini commessi dai Talebani dal 2021. Un procedimento molto lungo, troppo secondo alcuni attivisti.

Per accelerare i tempi la Cpi ha scelto allora di stralciare i reati precedenti per potersi concentrare solo su quelli dei Talebani, suscitando contestazioni in chi non è d’accordo nel “dimenticare” i crimini occidentali. Comunque, a oggi, il procuratore della Corte non ha presentato alcuna accusa contro i Talebani, né vi sono procedimenti avviati dagli Stati presso la Corte internazionale di giustizia.

Nonostante la naturale lentezza del procedimento, Human rights watch, Amnesty international e la Commissione internazionale dei giuristi sono tra coloro che ritengono che la Procura della Cpi dovrebbe aggiungere il crimine di persecuzione di genere all’indagine in corso e che gli Stati, attraverso la giurisdizione universale o altre vie giudiziarie, dovrebbero processare i Talebani sospettati di crimini di diritto internazionale.

Dall’altro lato, la Corte internazionale di giustizia è responsabile della risoluzione delle controversie tra Stati su questioni di diritto internazionale. Questa Corte può esaminare le cause intentate da uno Stato contro un altro Paese membro per violazioni della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), a cui anche l’Afghanistan ha aderito. Basterebbe la richiesta di un solo Stato per sottoporre gli abusi dei Talebani sotto il controllo giudiziario, come recentemente ha fatto il Sudafrica nei confronti di Israele a proposito del “plausibile genocidio” perpetrato a Gaza.

Quindi fin da subito uno Stato parte della Cedaw potrebbe portare i Talebani in tribunale e la Corte internazionale di giustizia potrebbe avere un ruolo importante. Ma nessuno ha finora fatto un passo del genere, sebbene tutti si dichiarino ogni giorno preoccupati per la situazione delle donne in Afghanistan.

Le divergenze non sono poche. Ad esempio, gli Stati Uniti non hanno ratificato la Convenzione perché Democratici e Repubblicani non sono d’accordo sui costi del trattato e non condividono le stesse norme sulla condizione delle donne. Inoltre la Cedaw è stata criticata per la sua prospettiva eteronormativa sul genere e sulla sessualità e per la mancanza del pieno riconoscimento di coloro che non rientrano nelle tradizionali identità di genere.

Altri invece puntano a far riconoscere a livello legislativo internazionale l’apartheid di genere come nuovo crimine contro l’umanità. Al momento è all’esame delle Nazioni Unite una revisione del Trattato sui crimini contro l’umanità e quindi alcuni chiedono che l’apartheid di genere sia inserito tra questi. Mentre in questo periodo è stata istituita presso l’Onu una commissione specifica che ha il compito di rivedere i criteri con cui viene definita la prevenzione e persecuzione dei crimini contro l’umanità. Da più parti si fa pressione e si sollecita il movimento per i diritti ad approfittare di questa finestra istituzionale per ottenere la modifica del Trattato.

Questa terza strada è preferita e fortemente caldeggiata dalle istituzioni internazionali e dalle donne afghane espatriate che vi lavorano all’interno, spesso utilizzate per mostrare il lato “buono” e democratico dei Paesi occidentali quando vogliono addolcire le loro politiche fondamentalmente aggressive, per mantenere l’opinione pubblica fiduciosa e dormiente.

In testa c’è il segretario generale dell’Onu, António Guterres, che fin dal 2022 ha dichiarato che l’oppressione che si accanisce sulle donne in Afghanistan deve essere considerata apartheid di genere perché la sua natura non è occasionale e limitata ma strutturale, dichiaratamente fondante l’ideologia dei Talebani, che mantengono in stato di inferiorità una parte della popolazione, in quanto genere, così rispondendo a tutte le caratteristiche necessarie per definire l’apartheid come tale.

Anche il Gruppo di Lavoro sulla discriminazione contro le donne delle Nazioni Unite il 20 febbraio del 2024 si è espresso per l’inclusione di queste azioni come crimine contro l’umanità ai sensi dell’Articolo 2 del progetto di revisione del Trattato sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità attualmente all’esame del Sesta Commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Già a settembre 2023 le Osservazioni fornite dal sottosegretario generale delle Nazioni Unite e dal direttore esecutivo delle Nazioni Unite Sima Bahous alla riunione del Consiglio di sicurezza delle Onu sulla situazione in Afghanistan chiedevano ai governi “di prestare pieno sostegno a un processo intergovernativo per codificare esplicitamente l’apartheid di genere nel diritto internazionale”.

Il Parlamento europeo il 14 marzo ha affermato poi che “l’applicazione da parte dei Talebani della legge della shari’a e l’esclusione di donne e ragazze dalla vita pubblica equivalgono a persecuzioni di genere e apartheid” e che vanno sostenute “le richieste della società civile afghana di ritenere le autorità di fatto responsabili delle loro azioni, un’indagine da parte della Corte penale internazionale, l’istituzione di un meccanismo investigativo indipendente delle Nazioni Unite e l’espansione delle misure restrittive dell’Ue”. Anche l’Italia a marzo è intervenuta in difesa delle donne afghane, nell’evento organizzato dalla Rappresentanza permanente d’Italia all’Onu “No Poverty eradication without the empowerment of women and girls – next steps for the future of Afghanistan”, ma non è andata oltre un generico appoggio e aiuto economico.

A gennaio un gruppo di parlamentari britannici ha dato il via a un’indagine sull’apartheid di genere, la prima al mondo di questo tipo, per analizzare la situazione delle donne e delle ragazze in Iran e Afghanistan rispetto alle definizioni legali esistenti sui crimini internazionali e le possibilità di inserirlo nel quadro giuridico internazionale esistente. Dando vita poi a un rapporto che è stato presentato al Parlamento del Regno Unito il 4 marzo 2024 in cui si dice espressamente che “questa grave questione può essere descritta solo come il crimine di apartheid: sostituendo ‘razza’ con ‘genere’, diventa evidente che la definizione legale riflette la situazione delle donne e delle ragazze in Afghanistan e Iran”.

La campagna “End gender apartheid today” è stata forse la prima richiesta rivolta espressamente ai governi per il riconoscimento di questo crimine. Decine di eminenti giuristi, studiosi e rappresentanti della società civile di tutto il mondo hanno pubblicato una lettera in cui esortano gli Stati membri delle Nazioni Unite a codificare l’apartheid di genere nel progetto di Convenzione sui crimini contro l’umanità.

Anche il Consiglio atlantico degli Stati uniti e il Global justice center, nell’ottobre 2023”, “hanno pubblicato una lettera congiunta e una memoria legale per sollecitare gli Stati membri delle Nazioni Unite a codificare specificamente questo crimine nella bozza di trattato sui crimini contro l’umanità attualmente all’esame della Sesta commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite”. Richiesta ribadita dal Consiglio atlantico l’8 marzo di quest’anno e ancora recentemente il 14 marzo.

L’Istituto internazionale per la pace (Ipi) -fondato dall’Onu- ha organizzato un panel sull’argomento. Tra le intervenute, Dorothy Estrada-Tanck ha individuato nella codificazione esplicita dell’apartheid di genere in Afghanistan una priorità per il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla discriminazione contro le donne e le ragazze, di cui è presidente. “Riconoscere e codificare questo come un crimine contro l’umanità è necessario per nominare e comprendere con precisione l’intera portata degli elementi di questo regime e, soprattutto, per innescare l’azione della comunità internazionale”, ha detto. L’evento è stato co-sponsorizzato dal Global justice center, Rawadari, dal Georgetown institute for women, Peace and security e dalle missioni permanenti di Messico e Malta.

La Federazione internazionale per i diritti umani, composta da difensori dei diritti umani provenienti da tutto il mondo, ha aderito ufficialmente alla campagna adottando una risoluzione per riconoscere “l’apartheid di genere”.

L’Alleanza per i diritti umani in Afghanistan, che include Amnesty international, Front Line defenders, Freedom house, Freedom now, Human rights watch, Madre, Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct), la Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) e la Lega internazionale per la pace e la libertà delle donne (Wilpf), esprime richieste più generiche ma comunque sollecita vengano stabilite le responsabilità attraverso “meccanismi che includono la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia”.

Così come il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite riunito nella sessione del 22 febbraio del 2024, che nel Rapporto afferma che la situazione delle donne afghane può configurarsi come apartheid di genere e raccomanda agli Stati di “sostenere i meccanismi internazionali di indagine e di responsabilità e avviare o collaborare con i processi di responsabilità nelle giurisdizioni nazionali per le violazioni passate e attuali da parte di tutte le parti in conflitto in Afghanistan, anche per quanto riguarda la giustizia di genere e gli attacchi alle comunità etniche e religiose”.

Tante e autorevoli, come si vede, sono le voci che spingono nella direzione dell’identificazione dell’apartheid di genere, e quelle riportate sono solo una parte. Ciò potrebbe far pensare che la strada sia in discesa, dato il gran numero di Paesi nel mondo che si definiscono democratici o che comunque sono contrari alle politiche ultrareazionarie e ultrafondamentaliste dei Talebani.

Ma non è così. Alla fine sono i singoli Stati che decidono all’interno dell’Onu, compresi ovviamente gli Usa e gli alleati occidentali, cioè quelli che prima hanno occupato l’Afghanistan e poi sono stati i promotori dell’accordo che ha riportato al potere i Talebani perché considerati più “affidabili” dei governi da loro stessi confezionati e sostenuti nei vent’anni di occupazione.

Mentre sostengono che le donne afghane non debbano essere abbandonate, è l’Onu stessa a incentivare un percorso di avvicinamento nei confronti del governo talebano con il dichiarato intento di arrivare al suo riconoscimento completo nel più breve tempo possibile, come hanno dimostrato la Valutazione indipendente sull’Afghanistan che ha portato al Forum di Doha del febbraio scorso e i successivi incontri.

Perciò c’è il rischio che prevalgano le preoccupazioni opportunistiche di inimicarsi tutti quei Paesi, e sono tanti, che per affinità culturale o religiosa con i Talebani o per interessi economico-politici nella regione non vogliono l’isolamento dell’Afghanistan e la conseguente limitazione dei contatti commerciali e politici; quelli che hanno di fatto già riconosciuto più o meno apertamente il governo talebano e quindi preferiscano non prendere una posizione chiara e potenzialmente gravida di reazioni negative per loro. Quanto possono essere credibili nel loro proposito di condannare i Talebani?

Certo il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità non sarebbe di per sé sufficiente a dare il via all’incriminazione dei Talebani perché comunque è indispensabile, come detto, l’azione di uno Stato per mettere in moto il tribunale internazionale, ma sarebbe un enorme aiuto per tutte quelle organizzazioni che come il Cisda e la Coalizione euroafghana sostengono le donne e le organizzazioni afghane come l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan (Rawa) che coraggiosamente si oppongono quotidianamente ai Talebani e chiedono agli stati democratici di non riconoscere il loro governo.

L’apertura di un processo internazionale al governo talebano con l’accusa di apartheid di genere sarebbe un procedimento lungo che non avrebbe effetti immediati sulla vita delle donne afghane, ma renderebbe loro giustizia e rafforzerebbe la loro resistenza.

Le battaglie per accrescere la democrazia e per il riconoscimento dei diritti a livello istituzionale e legislativo non sono mai state vinte per merito delle istituzioni stesse ma per la spinta che hanno avuto dal basso, da chi premeva per ottenere i cambiamenti.

Come ha detto Belquis Roshan, il riconoscimento che in Afghanistan vi è un sistema di apartheid di genere è una battaglia molto importante e non dobbiamo farcela strappare dai politici di professione. E nemmeno dalle donne che sono state leader politiche in Afghanistan, condividendo responsabilità di governo, e che ora, scappate dopo l’arrivo dei Talebani, riempiendosi la bocca di parole di democrazia, si sono riciclate in Occidente come rappresentanti del popolo e delle donne rimaste invece a soffrire nel Paese. Donne che appaiono nei media e che sono letteralmente usate negli incontri internazionali ufficiali quando i leader e gli Stati più potenti hanno bisogno di mostrare che ascoltano anche la popolazione civile e non solo i Talebani.

Sono le donne che resistono in Afghanistan e che ogni giorno devono affrontare gli attacchi dei decreti dei Talebani le vere rappresentanti di loro stesse. È a loro che dobbiamo dare voce e a chi continua, anche dall’esilio, a darsi da fare senza farsi fagocitare dalle istituzioni e dagli apparati che danno loro maggior prestigio. È grazie alla resistenza e alla resilienza delle donne afghane che l’argomento dell’apartheid di genere è ora all’ordine del giorno. Non possiamo lasciare che a farne una bandiera siano coloro che hanno portato la guerra in Afghanistan e poi hanno voluto lasciare il Paese in mano ai Talebani.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

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