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Esteri / Reportage

Viaggio tra i migranti che si fermano in Marocco: accolti per convenienza

Ousmane Djom, ex bracciante senegalese, aiuta un amico a trasportare un grosso casco di banane all’interno di una delle serre di Ait Amira, un comune rurale a Sud di Agadir, in Marocco © Marco Simoncelli

Negli ultimi dieci anni Rabat ha ripensato la propria politica migratoria, aprendo sempre di più le porte ai flussi provenienti dall’Africa subsahariana. Una scelta strategica con l’obiettivo di guadagnare peso nello scacchiere geopolitico

Tratto da Altreconomia 263 — Ottobre 2023

Il caldo asfissiante appesantisce il passo di Ousmane Djom, ex bracciante agricolo senegalese sulla cinquantina, mentre si fa strada tra banane, peperoncini e pomodori in una serra della cittadina marocchina di Ait Amira, 40 chilometri a Sud di Agadir, dove senegalesi, ivoriani, guineani e maliani raccolgono i prodotti della terra. Ousmane era arrivato qui nel 2019 con la moglie portandosi sei borse colme di merce da piazzare sui mercati. Il programma prevedeva di far ritorno a casa, ma nel giro di una settimana entrambi avevano trovato lavoro, proprio in quelle serre. Oggi sono ancora in Marocco: sempre di più, oltre a Paese di transito verso l’Europa, sta diventando una tappa di medio-lungo termine lungo le rotte migratorie intra-africane.

Ousmane e la moglie non sono i soli: la comunità senegalese è la più ampia tra i subsahariani e in continua crescita. Stando alle stime di diverse organizzazioni, il Marocco ospiterebbe circa 70mila persone provenienti da quell’area, tra regolari e irregolari. Non più solo il gendarme che respinge i migranti africani alle frontiere europee, quindi. Oggi Rabat vuole affermarsi anche come Paese di accoglienza, in netto contrasto con quanto accade nel resto del Maghreb. Un riposizionamento incompleto, però, e che non risponde solo a vocazioni umanitarie. “Nelle serre guadagni sui sei-sette euro al giorno -spiega Ousmane-, almeno puoi far fronte ai tuoi bisogni anche se una sola medicina può costarti lo stipendio”. Nonostante una paga modesta e un lavoro usurante, riesce a inviare risparmi in Senegal. “Dove siamo passati nessuno è in regola, a parte il gestore -spiega una volta rientrati tra le mura di casa- e molti lavorano in nero”.

Dalla sua terrazza, il paesaggio si apre su una vasta distesa di serre, simbolo del successo del “Piano verde” del governo che ha consolidato la regione di Agadir come principale hub ortofrutticolo del Paese. Lui stesso ammette di non essere mai riuscito a completare il dossier per la regolarizzazione: “Ci vuole il contratto di lavoro, la social security card. Sono cose che non trovi così facilmente”.

La pena prevista per gli irregolari è l’allontanamento in zone interne del territorio marocchino. Gli sgomberi avvengono spesso nelle principali città costiere, dove i migranti vengono caricati su autobus diretti verso luoghi remoti, soprattutto nel Sud. Un provvedimento però che, secondo varie testimonianze, scatterebbe solo violando altre leggi. Una “tolleranza” che potrebbe disincentivare ulteriormente la regolarizzazione, a beneficio dei settori che impiegano manodopera “irregolare” a basso costo. D’altra parte, nei campi “molti subsahariani lavorano per continuare il viaggio verso la Spagna e non per il permesso di soggiorno”, aggiunge Ousmane.  Ma le loro aspirazioni molto spesso si infrangono al confine.

Tra il 2014 e il 2022 l’Unione europea ha destinato al Marocco 2,1 miliardi di euro per il rafforzamento delle frontiere e il contenimento dei flussi migratori

Negli ultimi vent’anni, l’Unione europea ha di fatto esternalizzato al Marocco la gestione delle proprie frontiere esterne per bloccare le partenze. Tra il 2014 e il 2022, secondo i dati forniti dalla stessa Ue, Bruxelles ha destinato a Rabat 2,1 miliardi di euro in fondi di cooperazione per il rafforzamento delle frontiere e la gestione dei flussi migratori. Pressioni che, nonostante le critiche delle Nazioni Unite, seguono uno spartito già visto nel Maghreb: dagli accordi Italia-Libia del 2017, rinnovati nel 2022, al memorandum con Tunisi di luglio 2023 che prevede un contributo a fondo perduto dell’Unione di 105 milioni di euro per impedire le partenze, oltre a 150 milioni a sostegno del bilancio statale. Le pressioni per l’esternalizzazione delle frontiere europee si sono spinte fino al cuore del Sahel, come nel caso del Niger.

Di fronte alla presenza crescente dei migranti bloccati alla frontiera e di quelli che, come Ousmane, decidono di stabilirsi in Marocco, Rabat ha ripensato le proprie politiche di integrazione. Nel 2014, la nuova “Strategia nazionale su migrazione e asilo” sembra segnare un cambio di passo: mette al centro il rispetto dei diritti fondamentali dei migranti e una narrazione dei flussi come leva per lo sviluppo economico. Tra il 2014 e il 2017, due campagne di regolarizzazione hanno consentito a circa 50mila stranieri, tra cui molti cittadini subsahariani, di ottenere un permesso di soggiorno.E la politica migratoria acquista sempre più rilievo anche sullo scacchiere africano.

La moschea del quartiere Dar Sahada a Marrakech dove vive la maggior parte dei subsahariani © Marco Simoncelli


La maggiore apertura agli ingressi di persone che spesso arrivano dai Paesi dell’Africa Sub-sahariana (per i quali non è richiesto un visto d’ingresso) serve da “pedina di scambio” per ottenere supporto geopolitico. “La questione della sovranità sul Sahara occidentale è centrale. Grazie alla sua posizione pro-migrazione il Marocco ha riguadagnato una posizione di forza all’interno dell’Unione africana”, commenta Katharina Natter docente presso l’istituto di Scienze politiche della Leiden University ed esperta di migrazione nel Maghreb.

Questo riposizionamento nella narrativa, tuttavia, non si è sempre tradotto in azioni concrete. Il quadro giuridico è tuttora retto da una legge del 2003, di impronta esplicitamente securitaria, mentre il processo per ottenere un permesso di soggiorno resta oneroso e le regolarizzazioni straordinarie sono rimaste iniziative isolate. 

Reti associative, laiche e religiose, aiutano i propri aderenti a trovare alloggio e opportunità lavorative o di formazione, oltre a districarsi nelle procedure amministrative per la regolarizzazione e per l’accesso ai servizi essenziali. L’Associazione dei senegalesi residenti in Marocco (Arserem) conta tremila membri, mentre la Dahira dei mourid, una confraternita sufi molto influente in Senegal, conta 500 membri solo a Marrakech. Sebbene la nuova strategia di Rabat assicuri il diritto all’istruzione ai figli dei migranti e la copertura sanitaria anche agli irregolari, accedervi può essere complicato. “Il Marocco ha difficoltà nel fornire servizi adeguati persino alla popolazione nazionale senza risorse finanziarie adeguate non si riuscirà a garantirli anche agli stranieri”, afferma Mehdi Lahlou, professore all’Istituto nazionale di statistica ed economia applicata.

Omar Baye insieme a un collega marocchino nel ristorante spagnolo Casa de España di Agadir © Marco Simoncelli

In questo contesto, spesso i centri di salute danno priorità ai marocchini, come denunciato da attivisti e dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. In un Paese dove il tasso di disoccupazione tocca punte di oltre il 30% tra gli under 24, la competizione per il lavoro talvolta sfocia in tensioni tra popolazione locale e migranti. Mansour Sall, venditore ambulante e membro dell’Arserem, spesso riceve chiamate dalla polizia per fare da mediatore: “Ogni due o tre giorni scoppiano risse tra ambulanti marocchini e senegalesi”. Tensioni che, contrariamente a quanto avviene in Tunisia, vengono disinnescate dai piani più alti della politica marocchina, a partire dal Re: “Ci sono episodi di xenofobia su alcuni media o nella vita quotidiana, ma a livello politico sono stati rari, proprio perché la migrazione è un asset importante sulla scena geopolitica”, commenta Natter.

Malgrado l’aiuto delle reti associative, i primi passi in Marocco sono un percorso a ostacoli. “In tutti i lavori la paga era una miseria”, ricorda deluso Omar Baye che dal 2011 ha cambiato diversi settori: prima nei campi, poi in fabbrica e nelle costruzioni, spostandosi di continuo. Fino a quando, da lavapiatti, si è fatto notare dallo chef e ha iniziato l’apprendistato in cucina. Oggi Omar è cuoco in un ristorante spagnolo nel centro di Agadir.  

“Non ero venuto in Marocco per restare. Ho cercato per tre anni, invano, di arrivare in Spagna. Una volta avevamo comprato quattro gommoni”, racconta Omar nella penombra della cucina del ristorante. Tutto era pronto: contatti al porto, salvagenti, il via libera del responsabile della “foresta”. Le sponde del Mediterraneo sono però pattugliate da Frontex e dalla Guardia costiera marocchina; per evitare di essere intercettate, le barche cercano rotte sempre più rischiose. I primi tre gommoni sono naufragati, nessun superstite. Omar doveva salire sul quarto. “È lì che ho deciso di lasciar perdere”. Malgrado le condizioni di lavoro restino dure, oggi si sente integrato ad Agadir, ha imparato le basi dell’arabo marocchino, frequenta un corso di formazione come pasticciere.

Babacar Diomandé, 33 anni, ha lavorato per anni in un call center di Marrakech. Oggi dirige un piccolo gruppo per un’azienda marocchina. Si tratta di un settore che, secondo alcune stime, occupa nel Paese circa diecimila immigrati francofoni provenienti dall’Africa subsahariana © Marco Simoncelli

Anche Racine Ba si è spostato di città in città in cerca di migliori condizioni di lavoro. Le promesse della capitale economica, Casablanca, che attirano migranti di ogni profilo, spesso sono disattese: “Ho iniziato lì. Non ho lavorato per sei mesi”. Poi ha trovato un impiego in un call center, settore che già nel 2013, come riportato dalla ricerca condotta da Silvia Weyel per la fondazione Konrad Adenauer, occupava circa diecimila lavoratori senegalesi francofoni: “Il primo stipendio era di 45-55 euro al mese. Ma a lungo non ci hanno pagato, ci dovevano molti soldi. Un giorno, arriviamo al call center e lo troviamo vuoto”.

Racine ha iniziato così a vendere abusivamente articoli in pelle lungo la storica rue Prince Moulay Abdellah. “Iniziavamo verso le 23 fino alle quattro del mattino, per evitare guai con la polizia”. Anche perché “ogni volta che c’è un problema si ricordano che sei nero”. Lasciata Casablanca, Racine ha raggiunto la sorella a Marrakech, dove attualmente lavora in una storica guesthouse. “È stato allora che ho cominciato a integrarmi davvero, perché qui la mentalità è diversa rispetto ad altre città”. Nel frattempo, ha sposato Fatima, una donna marocchina, da cui ha avuto due figli che frequentano regolarmente l’asilo. “Imparano tutto: wolof, francese e arabo. Per le coppie miste però non è facile, ci sono molti stereotipi -osserva- e alcune preferiscono non essere viste”. 

I migranti senegalesi riescono a navigare nelle acque di questo sistema ambizioso ma ambiguo, frutto dell’equilibrismo di Rabat tra gli accordi con l’Unione europea e il suo auspicato ruolo di leader regionale nell’integrazione dei migranti, che ha consentito al Regno di consolidare il proprio soft power, attraendo manodopera a basso costo in settori strategici come l’agricoltura. I senegalesi fanno rete tra di loro ma col tempo si integrano anche nel tessuto sociale marocchino, contribuendo a ridurre i pregiudizi. Tra precariato e alta mobilità, le possibilità lavorative generano risparmi e dilatano la loro permanenza, che ha comunque una data di scadenza, anche se sconosciuta.

“Non rimarremo qui per sempre. Lavoriamo per un pezzo di pane e per fare un progetto in Senegal”, conclude Ousmane, che adesso è operaio in una fabbrica. Omar invece sogna ancora l’Occidente, ma l’orizzonte non è più quello di sfidare il mare per approdarvi a tutti i costi. Questa volta ci andrà con un visto e un piano lavorativo, forte del suo prossimo diploma da pasticciere.

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