Cultura e scienza / Opinioni
Responsabilità e consumo: la lezione di Venezia
Per mille anni la Repubblica Serenissima ha vegliato sul delicato equilibrio della Laguna di Venezia. Con l’avvento dell’Italia unita questa storia si è interrotta, ed è definitivamente collassata negli ultimi quarant’anni. Tomaso Montanari, due anni fa
La storia di Venezia sul lungo periodo è una storia di progettazione pubblica, collettiva. Perché, più che in qualunque altro posto del mondo, a Venezia non c’è confine tra architettura e urbanistica. Il fatto che la forma della città sia stata fissata, nella sua massima espansione possibile, in una data straordinariamente alta conferisce ad ogni innovazione di una singola architettura quella che vorrei chiamare una responsabilità urbanistica intrinseca. A Venezia, in altre parole, non c’è sfasatura tra forma e funzione, tra natura e politica, tra città e territorio. Un territorio che a Venezia si chiama Laguna. La Laguna ha vissuto perché lo ha voluto la Repubblica, che ha saputo tenere in equilibrio acqua e terra, forza dei fiumi e forza del mare. Lo storico Piero Bevilacqua ha scritto che “la storia di Venezia è la storia di un successo nel governo dell’ambiente, che ha le sue fondamenta in un agire statale severo e lungimirante, nello sforzo severo e secolare di assoggettamento degli interessi privati e individuali al bene pubblico delle acque e della città”.
Per mille anni la Repubblica Serenissima ha vegliato sul delicato equilibrio della Laguna, la particolarissima “campagna” che circonda Venezia. In natura, una laguna ha una vita limitata nel tempo: o vincono i fiumi che portano materiali solidi verso il mare, e la laguna si trasforma in palude e piano piano si interra, oppure vincono le correnti marine, che tendono a renderla un golfo, o una baia. I veneziani capirono che tenere in vita la laguna salmastra voleva dire assicurarsi uno scudo naturale sia verso la terra sia verso il mare. Non mancarono le discussioni: celeberrima quella cinquecentesca tra Alvise Cornaro, che avrebbe voluto bonificare la Laguna, e Cristoforo Sabbadino, che ne difese vittoriosamente la manutenzione continua. Il Magistrato alle acque, fondato nel 1505, e improvvidamente soppresso dal governo italiano nel 2014, aveva la responsabilità di attuare questa difesa. Sul palazzo di magistratura si poteva leggere una iscrizione latina che si può tradurre così: “La città dei Veneti, per volere della Divina Provvidenza fondata sulle acque e circondata da una cerchia di acque, è protetta dalle acque in luogo di mura: e pertanto chiunque in qualsiasi modo oserà arrecar danno alle acque pubbliche venga condannato come nemico della patria e punito non meno gravemente di chi violasse le sante mura della patria. Il disposto di questo editto sia immutabile e perpetuo”.
Con l’avvento dell’Italia unita questa storia si è interrotta, ed è definitivamente collassata negli ultimi quarant’anni. Per fare entrare le Grandi Navi si sono dragati e approfonditi i canali d’accesso in Laguna, e contemporaneamente se ne è abbandonata la secolare manutenzione. Il risultato è stato un abnorme aumento dell’acqua alta, culminato nella vera e propria alluvione del 1966. Fu proprio quello choc che mise Venezia di fronte all’alternativa: o riprendere il governo della Laguna e mantenere l’equilibrio, o essere mangiata dall’Adriatico. Fu allora che emerse la terza via: il Mose (Modulo sperimentale elettromeccanico), che dette l’illusione di poter eludere la scelta tra responsabilità e consumo. L’idea è quella di continuare a violentare la Laguna e poi rimediare meccanicamente, con una gigantesca valvola che provi a chiudere le porte al mare. Iniziata nel 2003, la costruzione del Mose non è ancora finita, ed ha per ora prodotto scandali, inchieste, arresti. I successi del passato, i fallimenti del presente: la lezione di Venezia appare eloquente.
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