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Finanza / Opinioni

Conviene davvero uscire dall’euro?

La moneta unica è considerata spesso l’emblema dell’Europa matrigna contro la sovranità degli Stati nazionali. In realtà, auspicarne la solidità sarebbe un beneficio per i Paesi membri indebitati. Il perché nell’analisi di Alessandro Volpi

La moneta è tornata al centro della scena politica internazionale dopo alcuni decenni in cui il suo ruolo pareva assai meno decisivo, quasi si trattasse di una materia per soli operatori di cambio. Questo nuovo rilievo si lega, in larga misura, all’importanza acquisita dall’euro che è diventato, in maniera paradossale, date le infinite critiche subite, la più forte valuta del mondo. Viaggia, infatti, ormai ad una soglia molto vicina alla parità con il dollaro, in un rapporto di uno a uno, e soprattutto, al di là del prezzo dato alla moneta dal mercato, appare la divisa più credibile di tutte le altre. 

Il dollaro naviga nelle acque incerte determinate dall’enorme produzione di biglietti verdi generata dalla Federal Reserve per superare la crisi e dalle incredibili sparate del neo presidente Donald Trump, in procinto di richiudere gli Stati Uniti nel recinto di un’economia curtense dove però un surreale protezionismo si abbina all’eliminazione di ogni ostacolo alla turbo-finanza. Lo yuan cinese non ha ancora la forza della moneta con cui condurre gli scambi internazionali e lo yen giapponese è perennemente afflitto da un’economia incapace di decollare. La sterlina poi, dopo la Brexit, è diventata una moneta da collezione. In un panorama siffatto, l’euro ha assunto i caratteri, come accennato, del vero e proprio pivot dell’intero sistema monetario globale senza tuttavia disporre di una cultura politica in grado di sostenerlo. Anzi, proprio per il peso assunto, la moneta unica europea è divenuta il bersaglio principale della polemica populista che ne ha fatto il simbolo con cui identificare l’idea di un’Europa matrigna, fredda e distante dalle sensibilità e dai bisogni dei vari “popoli nazionali”, privati della loro legittima sovranità. La conquista del primato monetario internazionale ha generato, in altre parole, l’identificazione dell’euro con il lato oscuro della forza tanto da fare della richiesta di uscita dalla moneta unica da parte dei singoli Paesi uno dei principali punti programmatici di molte forze politiche.

Si tratta, per molti versi, di uno dei più evidenti processi di aggressione nei confronti dei simboli del potere coltivati dalla semplificazione dell’antipolitica; un’aggressione che può avere però conseguenze assai rischiose. L’euro forte rappresenta la migliore garanzia per consentire il collocamento degli ormai giganteschi debiti pubblici che contraddistinguono gran parte degli Stati europei; nel Vecchio Continente ci sono ben nove Paesi con un debito pubblico superiore al 90% del Pil e sedici che sono ampiamente sopra il non più accettabile parametro di Maastricht del 60%. In simili condizioni, senza una moneta credibile, il costo del collocamento dei titoli di tali debiti, solo in termini di “manutenzione”, sarebbe difficilmente sostenibile per i conti delle varie realtà nazionali perché per attrarre i compratori sarebbero necessari tassi di interesse stellari. Per effetto del combinato disposto della stabilità dell’euro e della politica espansiva della Banca centrale europea, resa possibile proprio dalla forza della moneta unica e dal pericolo di deflazione, invece, il collocamento di tali debiti avviene in molti casi a tassi negativi che permettono, di fatto, una loro ristrutturazione gratuita. Se i nuovi titoli emessi per coprire quelli in scadenza “costano” meno di quelli che sostituiscono, è evidente il beneficio in termini di riduzione del debito complessivo e dunque è chiara la benefica ristrutturazione garantita appunto dalla moneta forte, in grado di far risparmiare ai conti pubblici somme significative.

È difficile immaginare che ciò continui ad avvenire uscendo dall’euro e ritornando a ben più fragili monete nazionali, a meno di non procedere ad una colossale cancellazione dei debiti pubblici, destinata a privare i Paesi che la mettessero in essere di qualsiasi credibilità per molti anni. Per l’Italia i pericoli dell’uscita dall’euro sarebbero ancora maggiori. Il nostro Paese è aggravato da un debito pubblico ben più pesante di altri partner europei, ha potuto disporre di una non banale flessibilità sui conti pubblici e, in questa fase, ha in atto un negoziato con la Commissione europea in merito alla richiesta di una correzione della manovra finanziaria in essere che può produrre esiti forse non troppo dissimili dalla celebre e funesta lettera del 2011. In queste condizioni, è chiaro che qualsiasi attacco alla moneta unica può passare quasi esclusivamente dalle difficoltà del più grande debito denominato in euro e pertanto la permanenza italiana nell’eurozona non pare certo troppo gradita ad alcune economie più solide, già solerti nell’ipotizzare un’Europa a doppia velocità. Un ritorno alla lira, in tale panorama, scatenerebbe gli spread, impennerebbe l’inflazione ben oltre i limiti del tollerabile e genererebbe un ulteriori impoverimento di chi ha già difficoltà per il proprio debole potere d’acquisto.

Ma allora perché nel momento in cui disponiamo di uno strumento molto efficace che abbiamo costruito con tanti, forse persino troppi sacrifici, vogliamo disfarcene, individuandolo come il male peggiore, ritenuto così nefasto da accomunare nella condanna destra e sinistra, quasi fosse, una simile condanna dell’euro, il primo concetto del nuovo linguaggio post-ideologico?
Forse una prima risposta si può trovare nel linguaggio delle paure che hanno bisogno di capri espiatori facilmente individuabili e che alimentano la rinuncia ad ogni ragionevolezza.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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