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Diritti / Approfondimento

Un’accoglienza all’altezza dei bisogni di chi è stato vittima di tortura

Ahmad, inserito nel progetto, studia italiano © Yarin Trotta del Vecchio

Medici senza frontiere e Ciac hanno dato vita a un progetto di integrazione in Italia per uomini e donne che portano i segni delle violenze subite in Libia e che necessitano una presa in carico adeguata per potersi curare

Tratto da Altreconomia 256 — Febbraio 2023

Una giovane donna soccorsa in un campo di detenzione libico malata di tubercolosi e in condizioni gravissime. Una bambina di appena cinque anni con picchi di glicemia superiori a 600. Sono le storie di due persone individuate da Marco Musso, coordinatore delle strutture di accoglienza di Medici senza frontiere (Msf) a Palermo, che meglio rappresentano la buona riuscita di un progetto sperimentale rivolto ai migranti vittime di tortura in Libia promosso in collaborazione con il Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus (Ciac) di Parma, un ente di tutela, accoglienza e integrazione della popolazione migrante e rifugiata. “Sia la donna sia la bambina probabilmente sarebbero morte -spiega Musso-. La possibilità di essere evacuate attraverso un corridoio umanitario e poi di essere inserite in un percorso di accoglienza che potesse adeguatamente rispondere alle loro esigenze le ha salvate”.

Un viaggio sicuro, prendersi cura delle ferite visibili e non, costruire una progettualità condivisa con la persona accolta. Sono i tre step previsti dal progetto che nasce per una “comune necessità politica -spiega Michele Rossi, direttore del Ciac-. Volevamo provare a inserire persone con una certa vulnerabilità in un sistema non arbitrario, disarticolato e spesso improvvisato com’è oggi il circuito dell’accoglienza ordinaria nel nostro Paese. Ma in uno più articolato che incorporasse le competenze specifiche degli operatori e i bisogni di cui le persone sono portatrici”.

Quelle “competenze specifiche” che Medici senza frontiere mette in campo prima in Libia, nei centri di detenzione (dove individua le persone con gravi problemi sanitari) e poi a Palermo, dove garantisce un’adeguata presa in carico sanitaria nell’ambito di un programma sulla riabilitazione di persone sopravvissute alla tortura realizzato in collaborazione con l’Azienda sanitaria provinciale (Asp) di Palermo e il policlinico Giaccone. Il progetto di Msf nasce come “costola” dei corridoi umanitari gestiti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dalla Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) e Tavola Valdese che permettono di portare in Italia piccoli numeri di persone attraverso canali legali in collaborazione con il governo.

L’organizzazione ha accolto i migranti a Palermo per sei mesi, con risorse proprie, prima di trasferirle all’interno del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), il programma nazionale di accoglienza e integrazione per richiedenti asilo e rifugiati, in particolare nei progetti gestiti dal Ciac e dal Cidas di Argenta (FE). Il Ciac interviene con la lunga esperienza di operatori e operatrici nel sostegno alle vittime di tortura.

“Oltre alle cicatrici ci sono i disturbi psicotici e post-traumatici, le conseguenze delle violenze che non si vedono ma che le persone portano con sé per tutta la vita -racconta Musso-. In sei mesi di intervento abbiamo visto come donne, uomini, bambini hanno ri-acquisito la libertà e la dignità costruendo passo dopo passo una relazione di fiducia nelle persone che le sostengono, dallo psicologo all’assistente sociale”.

“Ci sono i disturbi psicotici e post-traumatici, le conseguenze delle violenze che non si vedono ma che le persone portano con sé per tutta la vita” – Marco Musso

La parola “relazione” è centrale nell’idea progettuale promossa da Msf e Ciac perché spesso gli effetti della tortura rimangono silenti e vengono affrontati solamente nel momento in cui mostrano le loro conseguenze. “Magari quando la persona ha uno scompenso oppure durante l’audizione in Commissione territoriale (l’organo che ‘valuta’ il rilascio del permesso di soggiorno, ndr) quando si scopre del suo vissuto traumatico -sottolinea Rossi-. Ma essere state vittima di tortura incide a 360 gradi sulla vita della persona, non solo dal momento in cui racconta o sta male. Il fulcro del progetto sono le relazioni con gli operatori, la comunità come forma di ‘contrasto’ al malessere delle persone e soprattutto la co-progettazione”. Questa speciale presa in carico ha anche un effetto di prevenzione. “Non essere seguiti adeguatamente porta degli strascichi che hanno effetto per lunghissimo tempo -commenta Musso-. Il lavoro d’équipe è fondamentale per queste persone, per tornare a sentirsi sicure, autonome e riprendersi in mano la loro vita”.

Tra luglio e dicembre 2022 il progetto messo in campo da Msf e Ciac ha permesso di accogliere in Italia 12 persone con gravi problemi di salute: otto adulti e quattro bambini provenienti in maggioranza da Sudan, Eritrea e Somalia © Yarin Trotta del Vecchio

Tra luglio e dicembre 2022 sono state accolte 12 persone: otto adulti e quattro bambini, provenienti in maggioranza da Sudan, Eritrea e Somalia. Già sei di loro sono arrivati a Parma, nei progetti di accoglienza integrata e diffusa di Ciac. Un trasferimento che non è stato “calato dall’alto” ma discusso con le persone, i cui bisogni sono stati ascoltati e rispetto ai quali si è strutturato un percorso adeguato. “Un approccio diversissimo dai percorsi di accoglienza standard e che a livello economico costa anche meno -osserva Rossi-. Si costruisce partecipazione nel limite del possibile: abbiamo visto persone arrivate sull’orlo di divenire dei relitti e sei mesi dopo discutere, negoziare con noi del passo successivo da fare. Anche perché spesso sembra che la tortura spazzi via tutto di una persona ma non è così. Deve solo essere messa nelle condizioni di poter tirare fuori le sue risorse”.

“La ‘gestione’ dei profughi ucraini ci ha ricordato che una risposta che non criminalizza le persone ma le accoglie e riconosce i loro diritti è possibile” – Michele Rossi

Le storie dei 12 accolti rappresentano una goccia nel mare a fronte delle migliaia di persone detenute nelle prigioni libiche, molte delle quali aspettano il proprio turno per partire alla volta dell’Europa, sottostando alle richieste delle milizie libiche. Le stesse che l’Italia e l’Unione europea finanziano e attrezzano per intercettare in mare il più alto numero di persone possibile che si mettono in viaggio nel Mediterraneo centrale.

“Ciò che succede su quella frontiera mortale, così come sul confine italo-sloveno, ci hanno portato a proporre questo progetto in un periodo in cui la ‘gestione’ dei profughi ucraini ci ha ricordato che una risposta che non criminalizza le persone ma le accoglie e riconosce i loro diritti è possibile”, conclude Rossi. E la “risposta” in questo caso va proprio a lenire quei segni lasciati dalle violenze. “Segni di fronte a cui si prova rabbia, da un lato, impotenza dall’altro -osserva Musso-. Soprattutto quando i ragazzi ti raccontano di aver perso in Libia amici e famigliari. E molti si rimproverano di avercela fatta”.

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