Inchiesta
Una migrazione sicura
Basterebbe un visto umanitario per volare in Europa. La burocrazia lo impedisce, e scarica la responsabilità sulle compagnie aeree: è del 2001, infatti, la direttiva 51 a firma dell’allora presidente del Consiglio dell’Ue (Rosengren), che assegna alle compagnie la decisione su chi imbarcare. L’Italia ha saputo peggiorare la norma: nel decreto legislativo (l’87 del 2003, durante il governo Berlusconi) che ha recepito la direttiva in questione, è scomparso ogni riferimento alla convenzione di Ginevra.
Il risultato sono barconi, "esodi" a piedi, tragedie. E diritti negati.
“Con questo strumento, Raghad non sarebbe morta”. Sono poche e semplici parole quelle che Paolo Naso, coordinatore della Commissione studi della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, sceglie per descrivere la buona pratica alla quale, insieme ad altri, sta lavorando, a piccoli passi, con il ministero degli Esteri, in Marocco e in Libano.
È quella dei visti d’ingresso rilasciati per motivi umanitari, pratica amministrativa capace di evitare la tratta, gli scafisti, il mare o la morte a quelli come Raghad, 11 anni, siriana, malata di diabete, che se ne è andata in barca a metà luglio sotto gli occhi del padre Eyas Hasoun. Un trafficante alla guida del mezzo che doveva condurli in Sicilia ha lanciato in acqua lo zaino dentro il quale erano custodite le fiale di insulina, i macchinari per misurare i valori del diabete. Dal primo gennaio di quest’anno i morti in mare sono stati 2.812 (dato aggiornato al 15 settembre). Eppure Eyas, il padre, che è di Aleppo, e che lì gestiva un negozio di distribuzione di farmaci, avrebbe potuto permettersi un volo. Per raggiungere l’Europa, però, non ha prenotato un biglietto aereo dal Cairo (dove la famiglia era arrivata dal Paese d’origine) ma è salito su un’imbarcazione lunga 10 metri insieme ad altre 320 persone, sotto il tiro dei kalashnikov. Il suo Stato, infatti, compare nell’elenco dei Paesi i cui cittadini sono “soggetti all’obbligo del visto per attraversare la frontiera” (la definizione è della Farnesina e la fonte normativa un Regolamento datato marzo 2001 del Consiglio dell’Unione europea, il numero 539): dall’Afghanistan al Belize, dall’Etiopia al Mali, dalla Siria -appunto- al Qatar. È obbligatorio ottenerlo, dimostrando in certi casi anche il “possesso di mezzi economici di sostentamento”. E va richiesto in ambasciata o in sedi deputate. In caso di diniego, prendere un volo è una scelta improbabile.
Dal 2001, infatti, la direttiva 51 a firma dell’allora presidente del Consiglio dell’Ue (Rosengren), ha assegnato una responsabilità non indifferente alle compagnie aeree. “Per lottare efficacemente contro l’immigrazione clandestina” è il preambolo della direttiva, sono stati fissati “obblighi per i vettori (le compagnie, ndr) che trasportano cittadini stranieri nel territorio degli Stati membri”. Da quel momento, quindi, in presenza di un “cittadino di un Paese terzo cui sia stato rifiutato l’ingresso”, alle compagnie di volo è stato imposto l’obbligo di “trovare immediatamente il mezzo per ricondurlo e a sostenere le relative spese”, oppure pagargli il soggiorno prima dell’espulsione. Ma le fondamenta della Fortezza Europa già allora recavano uno spiraglio: “L’applicazione della presente direttiva non pregiudica gli impegni derivanti dalla convenzione di Ginevra” che è “relativa allo status dei rifugiati”. Questo è il paradosso: per poter presentare la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato è necessario raggiungere il confine del Paese destinatario della domanda, ma ciò è impossibile con un mezzo sicuro senza un visto.
Sta di fatto che l’Italia ha saputo peggiorare la già escludente norma. Nel decreto legislativo (l’87 del 2003, durante il governo Berlusconi) che ha recepito la direttiva in questione, è scomparso ogni riferimento alla convenzione di Ginevra. E al vettore (“aereo o terrestre”) che trasporta una persona sprovvista “dei documenti richiesti per l’ingresso nel territorio dello Stato”, “si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 3.500 a euro 5.500 per ciascuno degli stranieri trasportati”. Non solo: nel Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione del 1998 è stata pure prevista -“nei casi più gravi”- una “sospensione da uno a dodici mesi, ovvero la revoca della licenza”. Ogni compagnia è avvisata: ogni potenziale richiedente asilo sprovvisto del visto -come Raghad- potrebbe costare la revoca della licenza.
Ad ogni modo, il papà della bambina siriana avrebbe difficilmente voluto prendere un aereo per l’Italia, a meno che non dovesse farvi scalo, diretto com’era (e ha dichiarato) in Germania, o -come la stragrande maggioranza dei suoi concittadini- nel Nord Europa (Svezia), come ha magistralmente dimostrato il film “Io sto con la sposa” di Gabriele Del Grande. Si pensi solo al fatto che nel febbraio 2015, su 5.769 richiedenti asilo, il ministero dell’Interno del nostro Paese ha contato “solo” 30 siriani, contro gli 835 del Gambia.
L’Italia è piattaforma di transito per i più, che infatti sfuggono alle registrazioni. Ecco perché l’Europa ha disposto lungo il percorso quelli che non sono altro che ostacoli: la barca al posto del volo, lo strozzino al posto del banco aeroportuale, una direttiva vecchia di 14 anni al posto di “canali sicuri e legali per i rifugiati per raggiungere i Paesi dell’Ue”, com’è tornata a chiedere a metà settembre anche Amnesty International.
Poniamo che Eyas Hasoun si fosse comunque recato in ambasciata, in questo caso presso quella italiana al Cairo. Tra sé e la diplomazia italiana incaricata di esaminare la sua richiesta di visto, avrebbe incontrato un soggetto esterno, privato, chiamato a sbrigare le questioni pratiche e istruire i fascicoli, senza però entrare nel merito della domanda, che resta in capo al Paese d’ingresso. Si tratta della VFS Global -colosso multinazionale di proprietà di Kuoni Group, società quotata alla borsa di Zurigo- che serve 46 Governi nel mondo, operando in 122 Paesi proprio in materia di visti. Tra gli azionisti di riferimento della società madre c’è anche il fondo d’investimento americano Blackrock (vedi Ae 156), con il 3% delle azioni. Per il ministero degli Esteri, VFS è uno dei “Fornitori esterni convenzionati di servizi di visto” impegnati in 52 sedi estere del nostro Paese. Nel 2014 il ministero degli Esteri ha ricevuto 2.304.416 richieste di visto, facendo registrare una percentuale di diniego pari al 3,9%. VFS copre ben 20 sedi diplomatiche, tra cui appunto Il Cairo, Accra (Ghana), Nairobi (Kenya), Londra, Dhaka (Bangladesh). L’immenso potere nelle mani di questo soggetto è “regolato da un contratto di convenzione stipulato con ogni singola ambasciata -spiegano dal ministero degli Esteri, Ufficio visti d’ingresso in Italia e nello spazio Schengen- e sul quale si vigila dal centro”. “Dal febbraio 2014 è avvenuta un’importante riforma, grazie a un vademecum spedito dall’Ufficio visti -spiega un funzionario-, che ha introdotto contratti dalla durata di 3 anni, rinnovabili a seguito di gara da lanciare in loco. La normativa di riferimento è il Codice europeo degli appalti temperato però con il diritto locale. Il procedimento prevede la creazione di una commissione esaminatrice, un bando uniforme creato dalla Farnesina. I parametri possono essere la funzionalità degli spazi, la qualità del personale, il servizio migliore per l’utenza”. Da quando è stato introdotto, il nuovo sistema ha riguardato tra il 15 e il 20% dei contratti in essere. Ma non mancano gli inciampi. Il 16 luglio di quest’anno, infatti, un’associazione di rappresentanza del Bangladesh (Associazione coordinamento Italbangla e Sviluppo), ha depositato presso la Procura della Repubblica di Roma un esposto contenente accuse gravi (come la corruzione) a carico del “sistema VFS”. A chi reclama, il ministero degli Esteri si limita a suggerire la strada della denuncia, non avendo comunque mai avuto contezza di malversazioni o ruberie da parte dei propri fornitori.
Gli eventuali limiti, però, non riguardano solo fornitori esterni. Prima ancora di un visto, persone come Eyas necessitano di informazioni puntuali. Il portale “Il visto per l’Italia. Informazioni ai cittadini stranieri che intendono recarsi in Italia” (vistoperitalia.esteri.it/) -in lingua italiana, inglese, russa e araba-, a cura della Direzione generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie del ministero, dovrebbe rappresentare la soluzione. C’è un questionario da compilare con “4 domande per sapere se hai bisogno del visto d’ingresso per venire in Italia”. Nazionalità, Paese di residenza abituale, durata e motivo del soggiorno.
In quest’ultimo, però, non c’è traccia di una ragione “umanitaria”. Ci sono ad esempio “studio”, “affari”, “gara sportiva”, “lavoro autonomo”. E poi ancora “cure mediche” o “turismo”. “I visti per motivi umanitari non esistono -fanno sapere dal ministero degli Esteri-. È in corso una revisione dei codici a Bruxelles, ed è coinvolto sia il Consiglio sia la Commissione libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo. È possibile che venga introdotto uno strumento di questo tipo ma al momento si tratta di proposte che devono essere vagliate. Anche perché il ‘rischio di immigrazione illegale’ è condizione pressoché automatica di diniego della richiesta”.
Qualcosa però non torna. Nel Codice comunitario dei visti (Regolamento CE 810/2009), cui si deve rifare anche il nostro Paese, c’è infatti una deroga: è all’articolo 25, intitolato “Rilascio di un visto con validità territoriale limitata”. È confermato dai dati che la Farnesina ha inviato ad Altreconomia, che riguardano le prime 15 ambasciate italiane nel mondo per numero di richieste di visto pervenute (da Mosca a Pechino, a Shangai, fino a chiudere con Londra). C’è una parte relativa ai “VTL”: visti dalla validità territoriale limitata. Lo strumento c’è, il punto è che è usato poco, come le parole del funzionario del ministero hanno confermato. Sulle 15 sedi più rappresentative (lì si concentra il 73,5% delle richieste di visto), i VTL nel 2014 sono stati 6.019: lo 0,3%. Ecco un altro bastione della fortezza. Ed è su questo che Naso sta lavorando. “Mentre a Roma si discute -racconta-, non vogliamo che la gente continui a morire in mare. Ci è sembrato che l’articolo 25 del Regolamento Schengen del 2009 recasse un criterio interpretativo flessibile, valido ad esempio per una donna incinta, un ragazzo ferito, un minore non accompagnato, una persona in grado di fornire tutte le credenziali necessarie. E non sarebbe affatto una novità: questi meccanismi sono stati usati con il Kosovo, o dalla Germania, che con generosità li ha impiegati in questi anni. Forti di questo piccolo strumento abbiamo avviato una trattativa con i ministeri dell’Interno e degli Esteri, per verificare l’applicazione di questa norma. Siamo consapevoli di non poter costruire un meccanismo organico, ma è nostro dovere immaginare e poi testare un modello alternativo al barcone. Operiamo in Marocco, dove giungono subsahariani con l’intenzione di andare in Spagna, e in Libano, soprattutto per i siriani. Teniamo molto ai due canali, anche perché non vorremmo che ci si dimenticasse delle condizioni dei primi”.
Come operate nel concreto? “Immaginiamo un service, un ‘desk’ umanitario, dedicato alla raccolta dei casi segnalati alle autorità consolari. D’intesa con i terminali locali, che sono le associazioni e i gruppi umanitari che operano sul campo, raccogliamo domande, poi le istruiamo e le affidiamo alle autorità italiane”. La Fortezza potrebbe anche iniziare a vacillare, e quelli come Raghad potrebbero salvarsi. —
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