Economia
Un mondo senza governo – Ae 87 –
Gli ultimi nove anni, da Seattle in poi, segnano la crisi della “banda dei quattro”: Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio e G8. La sfida del futuro -sostiene Antonio Tricarico- è governare i nuovi regionalismi Gli anni…
Gli ultimi nove anni, da Seattle in poi, segnano la crisi della “banda dei quattro”: Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio e G8. La sfida del futuro -sostiene Antonio Tricarico- è governare i nuovi regionalismi
Gli anni in cui è nata Ae sono stati un punto di arrivo del processo “liberista” globale. Una delle prime copertine illustrava le proteste di Seattle del 1999 contro il vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Da quel momento iniziò la parabola discendente del sistema economico globalizzato.
Se guardo agli ultimi 8 anni individuo una serie di passaggi-chiave. Il primo è senza dubbio la conferenza Onu sul “finanziamento per lo sviluppo”, tenutasi a Monterrey, in Messico, nel marzo 2002. A prescindere dai risultati che uscirono dal vertice, per la prima volta assistemmo a una “riscossa” del Sud del mondo. In quell’occasione fu chiaro che l’agenda dello sviluppo sarebbe tornata a essere politica, non più solo tecnica ed economica. Da allora, molte agenzie dell’Onu, come l’Unctad (conferenza sul commercio e lo sviluppo, ndr) hanno iniziato a criticare il paradigma di Washington.
Il cosiddetto Washington Consensus altro non è che l’interpretazione “liberista” della globalizzazione, che si traduce in una forte riduzione del ruolo dello Stato, nell’apertura indiscriminata dei mercati dei beni e dei servizi, e dei capitali, e nella “svendita” dell’impresa-Stato, ovvero il ricorso alle privatizzazioni dei servizi pubblici e alla riduzione delle spese sociali. Poco dopo Monterrey, ad agosto, si tenne il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg, a dieci anni dalla conferenza di Rio. Anche in quel caso ci trovammo di fronte a un fallimento: l’agenda corporativa, il cui unico linguaggio era quello del commercio, non era in grado di affrontare le tematiche ambientali, ma solo di proporre fallimentari partnership pubblico-privato che non decollarono mai.
Poco prima, invece, l’Argentina. Era il dicembre 2001.
È stato il caso che ha dato la forza di riportare la politica al centro dell’agenda economica internazionale. Il Paese modello collassava per il fallimento delle politiche monetarie e macroeconomiche imposte dal Fondo monetario internazionale. Con l’Argentina si chiude un ciclo.
La tappa successiva è stata il vertice interministeriale della Wto, a Cancun, sempre in Messico, nel 2003. Il summit si chiuse senza nessun accordo, né sull’agricoltura, né sugli investimenti, né sui brevetti. Un fallimento merito dell’emergere di un movimento globale che metteva sotto accusa regole, legittimità e contenuti degli accordi della Wto.
Assistemmo a due fenomeni. Da un lato la legittimazione delle economie emergenti (il famoso G21) come attori che cambiano il panorama economico globale e la distribuzione del potere al suo interno. Per la seconda volta, i Paesi africani seppero dire di no, fermando di fatto il negoziato. Questo ci mise di fronte alla realtà di un intero continente, l’Africa, fortemente limitato nell’esercitare un reale potere politico. Nel biennio successivo, tra il 2004 e il 2005, abbiamo assistito a una critica generalizzata alle politiche liberiste. All’interno della Banca mondiale, innanzitutto, dove iniziarono a emergere forti contraddizioni, culminate con la nomina del “falco” Wolfowitz come presidente, dalla quale scaturì una sorta di “contrasto politico permanente” tra Unione europea e Stati Uniti. Oggi la Banca cerca di sopravvivere nonostante la bufera Wolfowitz, le sue dimissioni e l’incarico a Robert Zoellick.
Gli ultimi due anni sono infine segnati da una frammentazione del sistema multilaterale.
Il sistema quadripartito Wto, Banca mondiale, Fondo monetario e G8 interpretava un disegno facilmente intellegibile, quello liberista, da imporre anche nelle economie del Sud del mondo attraverso i piani di aggiustamento strutturale.
Da questo impianto però hanno tratto vantaggio solo le grandi economie, le multinazionali e la finanza internazionale.
La Wto nacque nel 1994 per governare la globalizzazione del commercio internazionale, che è avvenuta solo in parte. Non c’è stato quello che la Wto voleva, una sorta di drastica “divisione dei compiti” per la quale l’America latina avrebbe fatto da granaio del mondo, mentre l’Asia si sarebbe dedicata all’industria manifatturiera e l’Europa al mercato dei servizi, con l’Africa relegata a “magazzino” di risorse (materiali e umane) da sfruttare. L’Organizzazione mondiale del commercio è entrata in crisi. Per questo i governi si buttano su accordi bilaterali, tra Stato e Stato. Quel che esce dalla porta ritorna dalla finestra. Gli accordi bilaterali rispondono a un’esigenza molto pragmatica -ci sono questioni per le quali non esistono accordi internazionali esaustivi, come nel caso degli investimenti – ma non porteranno alla stabilizzazione del sistema internazionale. Non è un problema della sola Wto.
Il Fondo monetario internazionale viene delegittimato. Oggi chi ha debiti nei suoi confronti li paga emancipandosi da un’istituzione che non sa più che fare. Il sistema fa acqua da tutte le parti. Crolla. Anche il G8 viene superato nella realtà: sono davvero gli otto Paesi più potenti? Eppure si rifiutano di cambiare il modello, e si illudono di arrivare a compromessi con le potenze che si stanno affacciando sullo scenario internazionale. Forse la sola Banca mondiale ha capito, a differenza del Fondo, di doversi smarcare dalla retorica della riduzione del ruolo dello Stato, e dall’idea che i mercati globali portavano automaticamente sviluppo anche ai Paesi poveri.
Cosa è rimasto del potere che queste istituzioni detenevano nell’intervenire sullo sviluppo del pianeta?
La situazione è singolare. Rimane l’egemonia di un pensiero unico liberista, perché l’atteggiamento delle istituzioni internazionali ha permeato i sistemi dei singoli Paesi. L’Italia teme sempre il giudizio del Fondo, ad esempio. In realtà il vero potere che rimane a queste istituzioni è ridotto e diverso dal passato. Non è più dare soldi, salvo che all’Africa, ignorata o quasi dalla finanza privata. Oggi il loro ruolo è giudicare gli Stati, fare una sorta di rating dei Paesi da segnalare ai mercati finanziari, per quantificare quanti prestiti questi possano prendere dai privati. Solo che ci sono anche società private internazionali (come Standard & Poor’s) che fanno lo stesso.
Alla Wto è rimasto poi il potere di giudicare le diatribe commerciali. Ma queste istituzioni continueranno a funzionare male fino a che il sistema non si sarà democratizzato.
Quale modello dobbiamo aspettarci per il futuro?
All’orizzonte c’è la conferenza sullo sviluppo, erede di quella di Monterrey, che si terrà il prossimo anno a Doha, in Qatar.
In quell’occasione ci sarà l’emergere di un nuovo modello, l’opzione del “regionalismo”. È la grande sfida dei prossimi anni. Anche se rimane una propensione al multilateralismo, il regionalismo contribuirà a strutturare dinamiche sovranazionali che potrebbero mantenere rilevanza politica, evitando che approcci liberisti abbiano il sopravvento. Oggi gli impatti negativi della globalizzazione si vedono anche nel Nord del mondo, basta pensare alle crisi finanziarie o commerciali. Alcune questioni avranno bisogno di istituzioni globali nuove, anche perché emergono beni pubblici “globali”, come la stabilità climatica, o finanziaria, che prima non venivano considerati. Per altre serviranno invece istituzioni regionali. Ma non varrà più la risposta di un modello unico: in sé reca l’idea che l’economia risolve tutto. Abbiamo imparato che non è così.
Quale sarà il ruolo della società civile in questo processo?
La società civile ha sempre costituito un’avanguardia, sin dagli anni 80, nel Nord come nel Sud del mondo. È stata la società civile, tra gli anni 90 e l’inizio del millennio, a ripoliticizzare l’agenda dello sviluppo (istanze oggi assunte da alcuni Paesi del Sud del mondo). Dopo Cancun, cioè dopo la “critica”, la società civile si è posta la domanda: quale alternativa al sistema? E questo è l’impegno: battersi per i diritti e far nascere un’alternativa economica, nel locale e anche più in grande.
Dovremo però saper conciliare esperienze frammentarie,
o confinate in alcuni Stati, senza per questo snaturarle. Sarebbe come ricadere nell’approccio unico globalista. Le domande aperte sono tante: quali regole, quale livello di interferenza con la sovranità nazionale, quali processi decisionali e partecipati. E non è detto che una diversa proposta macro-economica, pur se diversa dal liberismo, da sola funzioni. È una sfida di sostanza e di processo.