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Terra e cibo / Attualità

Trattori, tratturi e carrelli della spesa

© Chris Ensminger

Un modello agricolo ormai al capolinea si specchia nelle logiche distorte della grande distribuzione. Perché il cibo è trattato come una merce, anello di una catena diseguale. È necessario tornare con i piedi nella terra, pensando alla nostra salute. Il commento di Lorenzo Berlendis, già dirigente di Slow Food Italia

La crisi generata dai prezzi in agricoltura è una costante di questo modello agroindustriale. Almeno da qualche decennio. Periodicamente e ciclicamente si mostra vicino al punto di non ritorno. Vuoi per i ritardi nell’erogazione dei contributi e rimborsi europei, le misure della Politica agricola comune (Pac), vuoi soprattutto per il crollo dei già infimi prezzi dei prodotti all’origine. Tutti ricordiamo le vicende del latte, dalla questione surrettizia delle quote fino agli ettolitri buttati per strada; lo stesso vale per grano o frutta. E poi aumenti smisurati dei costi di produzione, le impennate del carburante di pochi mesi fa che hanno assestato un duro colpo, soprattutto a chi aveva un parco macchine importante o, comunque, necessità di cospicui input energetici esterni.

Quando la crisi è acuta, quando la situazione diventa insostenibile, i trattori si riversano nelle strade, capaci, viste le loro dimensioni, di creare disagio e sensazione anche in numero non elevatissimo: bastano una decina, anche meno, di quei mostri da 300 cavalli e 200mila euro per creare scompiglio e fare notizia.  Una prima questione da risolvere, a proposito di costi e prezzi, è la seguente: si parla di cibo o merce? Tutto, o quasi, il cibo si compra e si vende, certo. Un conto però è il cibo prodotto da agricoltori custodi di semi, razze, e saperi artigianali, dediti alla cura e al rinnovamento di suolo e terra che offrono direttamente, o attraverso sistemi cooperativi e associati, bontà e nutrimento oltre che salute. Un conto è il cibo derivato da monocolture intensive che finisce nel tritatutto dei meccanismi finanziari della Borsa, ostaggio di logiche monetarie gestite da attori sovranazionali e di scambi ineguali, prodotto con pratiche che adottano scorciatoie, pesticidi e diserbanti, piuttosto che interventi pesanti di fitofarmaci, fertilizzanti, mangimi. Di solito necessitano di investimenti ingenti per dotarsi di macchinari costosi ed energivori, spesso acquisiti con contratti o mutui che tolgono il sonno agli stessi agricoltori che poi, nelle cronache dell’oggi, tendono a confondere con sorprendente strabismo i loro nemici. Essi sono, nella realtà, ugualmente vittime, magari conniventi, forse inconsapevoli, talvolta accidentali di un modello al collasso. Il fatto che essi producano cibo per noi, nutrimento per animali che diventeranno cibo umano o biomassa per digestori non è la stessa cosa. Cibo o merce. Food or feed non è per nulla la stessa cosa, un’ambiguità da chiarire, prima di ogni possibile confronto. Produrre cibo e insieme salute, dovrebbe esser una tautologia, alcune associazioni di agricoltori come Via Campesina o Confédération paysanne ben lo sanno e lo praticano. Ce lo ha ricordato Luca Martinelli in un suo recente e lucido pezzo per Altreconomia. E il confronto su crisi agricola e prezzo del cibo da questo discende, o dovrebbe.

Difficile immaginare qualcosa di simile ai blocchi stradali dei mega trattori con i carrelli della spesa, pur riempiti con gli eccessi natalizi o le “ricariche” post vacanze, è un confronto impari.  Eppure, anche i consumatori avrebbero ragioni, parzialmente omologhe a quelle degli agricoltori, magari non esattamente sovrapponibili a quelle dei conducenti dei grandi trattori, per lamentarsi del disequilibrio spesso insostenibile delle e nelle filiere, nonché dei meccanismi di formazione dei prezzi del cibo, dalla sorgente alla tavola. Dalle tasche dei contadini ai nostri portafogli si inseriscono attori e processi che nuocciono ai primi quanto agli ultimi. Facile imputare a distribuzione e logistica, alla lunghezza irragionevole della filiera, alle troppe e impari marginalità l’inconsulta moltiplicazione del prezzo del cibo dalla terra alla tavola.

La questione ancora più complessa da sviscerare quanto da mandare a memoria e quale sia il vero costo della spesa, del cibo che compriamo. Dietro allo scontrino c’è una dimensione insondabile, tanto reale quanto sfuggente alle cronache, quando si parla di alimentazione, di cibo e agricoltura. A partire dalle famigerate esternalità negative, ossia i costi ambientali che le aziende produttrici scaricano sulla collettività e fiscalità generale. Questo è il primo pezzo, significativo, dei costi occulti del nostro cibo. Bonifiche ambientali, effetti nefasti di pesticidi e diserbanti, di fitofarmaci e fertilizzanti su salute e speranza di vita. La Pianura padana è uno dei comprensori più inquinati del mondo, con decine di miglia di morti premature ad esso riconducibili. Con un suolo agricolo depauperato, eroso e reso pressoché sterile, disponile in quantità paurosamente decrescente vista la costante perdita di superfici agricole o naturali dovuta alla costruzione di edifici, strade, aeroporti, infrastrutture e ad attività estrattive o di discarica. Un prezzo dilazionato che paghiamo, e salato, ma non riconducibile e immediatamente quantificabile nel costo della spesa, nel totale del nostro scontrino. Un costo che stiamo anche scaricando scelleratamente sulle future generazioni.

Una seconda voce nascosta dello scontrino è rappresentata da contributi all’agricoltura, che vengono, pur indirettamente, dalle nostre tasche. Un terzo del bilancio complessivo dell’Unione europea finisce nel capitolo Pac. Quella serie di misure in vigore, che conviene ricordare, è stata votata da tutto il Parlamento europeo, solo i Verdi si sono espressi contro. Risultano perciò bizzarre quanto strumentali le dichiarazioni degli esponenti di un certo mondo politico, che appoggiano le ragioni di chi contesta le norme europee che essi stessi hanno approvato. Strabismo gattopardesco della politica e cecità dei rappresentati insieme. In più i singoli Stati hanno altre misure di soccorso, sostegno e sgravio verso gli agricoltori. Tutto ciò ci dice che il sistema agroalimentare non si regge da solo, ovvero con i prezzi riconosciuti ai produttori. Parrebbe obbligato indagare e mettere mano alla filiera, ripensare il modello agricolo dalle radici, con tempi e modi graduali e progressivi, a partire dal coinvolgimento degli agricoltori. In primo luogo, coloro che praticano un’agricoltura responsabile verso la terra e il futuro. Certo la politica, anche quella della sinistra che ha perso per strada la “falce”, avrebbe molto su cui interrogarsi e ripensare. Ancorché, visti i risultati di reddito, precarietà e sicurezza del lavoro, anche per quel che riguarda il “martello” pare che grande sia la confusione sotto il cielo. Ci è voluto un novello Francesco, ancorché di gesuita formazione, per poter leggere qualcosa di complesso e compiuto sul tema cibo, distribuzione risorse, rispetto degli equilibri biologici. A proposito di equilibri di filiera, una prima mossa come ha fatto Sanchez in Spagna, potrebbe e dovrebbe essere un primo passo ben posto. L’Osservatorio della filiera, istituito nel 2019 in Spagna, mette attorno al tavolo tutti gli attori della food chain, consumatori compresi. A questa strategia si è accompagnata la norma che vieta la vendita a perdita nella Gdo.

Tornando nel pensiero e borsa della spesa dei consumatori, per quanto si possa optare, come singoli o gruppi di acquisto, per la de-intermediazione del rapporto, attraverso l’acquisto diretto, in azienda, al mercato oppure online, la questione rimane largamente irrisolta. La spesa fatta dal produttore, piccolo, familiare, biologico non svela che quanto la paghiamo è, spesso, un ammontare ingiusto, per nulla rispondente ai reali costi, leggi redditività di chi lo ha prodotto. I piccoli produttori per competere con i prezzi stracciati riconosciuti alla “grande agricoltura” vivono di giornate di lavoro interminabili, di giorno a produrre e la sera a compilare moduli e registri. Si avvalgono nella stragrande maggioranza di lavoro occulto, gratuito o scambiato a basso costo da familiari e collaboratori saltuari. Ci dicono studi, promossi anche dalle grandi associazioni di categoria, che il lavoro agricolo è remunerato meno di 3 euro all’ora, rispetto agli ipotetici 11,5 che recitano le indagini di mercato. Non è un caso che l’abbandono dell’attività da parte dei piccoli produttori sia un crescente e preoccupante fenomeno, ai numeri a due cifre in percentuale corrisponde una relativamente minima diminuzione delle superfici agricole: la spiegazione è il land grabbing, i grossi gruppi dell’agrochimica se le accaparrano. La concentrazione dei sistemi agroalimentari in poche mani procede inesorabilmente, insieme alle minacce del cibo hi-tech, che è nelle stesse mani, sia prodotto in laboratorio o attraverso vecchie e nuove tecniche di manipolazione genetica. In più le minacce del clima cambiato le cui precipitazioni sono sempre più estreme, la desertificazione crescente e la migrazione delle colture, mettono a dura prova chi fa agricoltura di piccola scala, quella che produce cibo buono per gli umani, per l’ambiente e per la terra.

Alimentarsi è apparentemente e davvero un girone infernale in cui la grande distribuzione più squalificata e inguardabile, quella dei low cost, del sottocosto (chi e che cosa vien pagato meno del costo reale o equo?), dei 3×2 e 2×1, risulta essere la “salvezza” delle classi meno abbienti, dei vecchi e nuovi indigenti, di chi non riesce a campare col proprio stipendio. Quella massa oscura e silente di cui nessuno -nel mondo della politica- si occupa, se non le associazioni di volontariato. Come dire oltre il danno la beffa: ci si rivolge copiosamente a coloro che generano le nuove povertà.

Le osservazioni di cui sopra indurrebbero a credere che produttori di cibo e consumatori, i co-produttori come qualcuno correttamente li definisce, siano sullo stesso carro, sulla stessa sponda del fiume. Invece la realtà, anche quella di questi giorni, ci dice che non è esattamente così. Anche se alcuni degli “autoconvocati”, vedi l’appello letto a Sanremo, hanno scelto parole di senso per aprire uno sguardo collettivo sulle filiere agroalimentari. Il termine “autoconvocati” che ha accompagnato “Riscatto agricolo”, sbalzato alla ribalta delle cronache, è di quelli che fanno tremare i polsi alle organizzazioni di categoria, al pari di quando fa capolino nelle fabbriche, alle organizzazioni sindacali. Forse alcuni di essi percepiscono che il modello scricchiola, pur drogato da copiose iniezioni di denaro pubblico. Sicuramente denaro maldistribuito: l’80% va al 20% degli operatori agricoli, quelli di grandi dimensioni, che dispongono dei mezzi per stipendiare consulenti, destinare personale dedicato, tessere relazioni forti con organizzazioni di categoria e sottobosco politico. Non è certo il caso della maggioranza delle aziende agricole che è di dimensione familiare o appena più grande. Indubbiamente i contributi sono comunque percepiti con ritardi e procedure farraginose. E non è un caso o un incidente che sia così, è un dato costitutivo del sistema per favorire la necessità di rivolgersi a professionisti, organizzazioni di categoria o sindacati per compilare moduli, accedere a bandi.

Sistema congegnato ben lungi dal premiare, invece, chi della indissolubilità tra cibo e salute fa pratica quotidiana. Produttori responsabili che sono naturalmente alleati dei consumatori attenti, magari confusi e resi impotenti dai meccanismi inattingibili di filiere né trasparenti né eque. Alleati che si ripromettono di essere buoni antenati e riservare bontà e bellezza alle future generazioni e per le quali occorre fare delle scelte in merito a quale cibo, quali filiere, quali consumi consentono di preservare terra, suolo e biodiversità. Reddito per gli agricoltori insieme, non contrapposto, alla salute. Elemento il cui costo non è computabile, né entra nei calcoli di impatto delle filiere. Altro che allentare le norme su pesticidi e affini. Imputare la crisi attuali alle Strategie Biodiversità e Farm to fork del Green deal è ridicolo poiché non sono ancora a regime e i loro effetti sulle filiere agroalimentari è ancora di là da venire. Non incidono quindi sulla mancata redditività attuale, sui prezzi all’origine o altro. La salute nostra, degli animali, del vivente, del suolo, del Pianeta, del futuro non deve essere in vendita ma la leva di un ripensamento epocale del modo di produrre, trasformare e distribuire il cibo. Qualcuno la chiama transizione ecologica, Carneade?

Lorenzo Berlendis, docente in pensione, si è occupato di progetti di rigenerazione territoriale, anche come dirigente di Slow Food Italia

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