Economia / Approfondimento
Tassare per prevenire, la sfida dei governi alle multinazionali
I comportamenti non salutari sono tra le principali cause di morte nei Paesi occidentali. Aumentare il prezzo di tabacco e bibite zuccherate, alzando le accise, permetterebbe di ridurre malattie e mortalità
“Di tutte le preoccupazioni ce n’è una, la tassazione, che ci allarma di più. È vero che i divieti pubblicitari e di fumo nei luoghi pubblici riducono le vendite ma, nella nostra esperienza, la tassazione li abbatte molto più severamente”. È il 1985 quando la Philip Morris, in un documento interno reso disponibile dall’archivio digitale Truth Tobacco Industry Documents dell’Università della California, esprime preoccupazione sulle misure di tassazione come strumento di lotta al tabagismo.
Negli ultimi 30 anni, i governi che hanno tentato di introdurre strumenti di questo tipo si sono scontrati con la forte opposizione dell’industria, del tabacco ma anche alimentare, che con la sua influenza ha limitato l’implementazione di queste politiche in molti Paesi.
L’efficacia delle politiche di tassazione nelle strategie di prevenzione, però, è ormai dimostrata e la stessa Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) l’ha inserita all’interno del Piano globale per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili. E nel suo report Fiscal policies for diet and the prevention of noncommunicable diseases (2016) raccomanda di aumentare di almeno il 20% il prezzo delle bevande zuccherate per ridurre gli effetti sulla salute dei cittadini. “Possiamo dire che, sulla base delle esperienze documentate, aumentare la tassazione su specifici prodotti fa abbassare i consumi e, di conseguenza, riduce il rischio di malattia legata a questi”, spiega ad Altreconomia Francesco Branca, direttore del Dipartimento della nutrizione per la salute e lo sviluppo all’OMS. I comportamenti non salutari sono tra i principali responsabili delle morti nel mondo occidentale. Secondo uno dei più completi studi epidemiologici a livello mondiale, il Global Burden of Disease, in Italia nel 2015 la dieta non salutare ha causato la perdita di 1.834.218 anni di vita per malattia o morte prematura, mentre il fumo 1.555.479. L’impatto di questi comportamenti non si limita solo all’aspetto sanitario ma ha anche un costo economico per lo Stato, dovuto per esempio alla spesa per le cure o alla perdita di forza lavoro. I costi economici del tabacco sono stati calcolati da un recente studio pubblicato sul British Medical Journal, stimati in media intorno all’1,8% del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale, con un maggiore impatto in Europa e Nord America. L’Università di Tor Vergata ha condotto uno studio simile sull’obesità in Italia, stimando il suo impatto economico in circa 2,5 miliardi di euro l’anno.
Eppure, ogni volta che si tenta di proporre politiche di tassazione come strategie di prevenzione, ritornano puntualmente due argomentazioni che si oppongono alla loro introduzione: l’effetto negativo sull’economia e sull’occupazione e la loro iniquità. Per spiegare la prima, l’esempio del tabacco è emblematico. I governi sono stati scoraggiati per anni dalle industrie, che li hanno convinti che una diminuzione dei consumi di sigarette avrebbe comportato una minore entrata fiscale. Queste argomentazioni sono state smentite sia dall’OMS sia dalla Banca Mondiale: un aumento della tassazione non solo rappresenta un efficace intervento di sanità pubblica, in quanto diminuisce i consumi, ma addirittura aumenta le entrate fiscali, considerato che in Italia il 75% del costo di un pacchetto va allo Stato.
Aumentando ad esempio il costo di un pacchetto di sigarette di 1 euro, oltre ad avere una riduzione dei consumi di circa l’8% potrebbe comportare, a causa delle maggiori accise, un guadagno di 180 milioni per i rivenditori e di 1,4 miliardi per lo Stato. Questo è dovuto all’elasticità della domanda di sigarette, stimata dalla Banca Mondiale nei Paesi ad alto reddito a -0,4: ad un aumento del prezzo delle sigarette del 10% corrisponderà una riduzione del 4% dei consumi. Così la diminuzione dei consumi è compensata da un aumento dei ricavi. In questa situazione, l’unica a perderci è l’industria del tabacco, che si è trovata ad affrontare quella che l’OMS ha definito come la più importante strategia nella lotta al tabagismo.
Aumentare la tassazione su specifici prodotti fa abbassare i consumi e, di conseguenza, riduce il rischio di malattie legate a questi
Riguardo alla possibile perdita di posti di lavoro, le esperienze in alcuni Paesi fanno pensare che, se ben disegnate, queste politiche permetterebbero lo sviluppo di settori alternativi in grado di assorbire la disoccupazione. Le aziende potrebbero modificare i loro prodotti adeguandosi ai nuovi consumi per non perdere una fetta di mercato e, nel caso delle bibite, cominciare a produrre bevande ad alto contenuto di frutta.
Il Regno Unito lo ha capito prima di altri: da aprile 2018 nel Paese entrerà in vigore una legge che tassa non solo le bevande ma tutti gli alimenti che contengono zucchero. Molte aziende si sono adeguate e hanno riformulato le ricette dei loro prodotti o abbassato la quantità di zucchero. Le misure di tassazione possono essere un ottimo intervento anche di lotta alle disuguaglianze. Spesso, l’accusa che si rivolge all’aumento dei prezzi è quella di provocare maggiore iniquità visto che i ceti meno abbienti sono i maggiori consumatori di tabacco e bibite zuccherate e sarebbero quindi i più colpiti da misure fiscali di questo tipo.
Secondo gli ultimi dati del sistema di sorveglianza PASSI, curato dall’Istituto Superiore di Sanità, la percentuale di obesi aumenta all’abbassarsi del titolo di studio e al crescere delle difficoltà economiche. Stessa tendenza per il fumo: la percentuale di fumatori tra chi dichiara di non avere nessuna difficoltà economica è del 22,2% e aumenta al 34,7% tra le persone più svantaggiate, nonostante questa rappresenti un’abitudine dispendiosa. Se i più poveri consumano maggiori quantità di questi prodotti, quindi, un aumento del loro prezzo peserà di più sui loro redditi.
Ma per Francesco Branca il ragionamento da fare è l’opposto: “La tassazione fa diminuire le disuguaglianze. Essendo più sensibili all’aumento dei prezzi, le persone con uno status socio-economico più basso sono costrette a diminuire i consumi legati a bibite e tabacco. A lungo termine, questo porta ad un abbassamento delle malattie correlate a questi prodotti, che colpiscono di più proprio le persone svantaggiate”. Esattamente quello che è successo in Messico dove, da quando è stata introdotta un’imposta sulle bevande zuccherate nel 2014, c’è stata una riduzione nei consumi del 6% già dal primo anno, con una punta del 17% tra i gruppi meno abbienti.
Questi dati dimostrano perché, soprattutto nelle fasi iniziali di attuazione, queste politiche di tassazione non siano accolte con entusiasmo tra l’opinione pubblica. Anche perché molte volte le campagne di promozione di stili di vita salutari non bastano a trasmettere il messaggio. Su questo limite fanno leva le strategie di marketing delle grandi industrie, e accade come in passato con il tabacco: le revisioni della letteratura scientifica hanno dimostrato che gli studi finanziati dalle compagnie tendono ad attribuire una correlazione minore, se non nulla, tra lo zucchero e l’insorgenza di malattie legate all’alimentazione.
Il Regno Unito lo ha capito prima di altri: da aprile 2018 entrerà in vigore una legge che tassa non solo le bevande ma tutti gli alimenti che contengono zucchero
Le aziende alimentari però si spingono oltre, adottando quelle che Angelo Stefanini, professore e direttore scientifico del Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale ed Interculturale all’Università di Bologna, definisce strategie di whitewashing: “Le industrie finanziano borse di studio o contributi a buone cause per ripulire l’immagine negativa associata al loro ruolo e apparire sensibili ai temi della promozione della salute”. Da queste strategie aveva messo in guardia nel 2013 anche l’allora direttrice generale dell’OMS Margaret Chan durante la conferenza globale sulla promozione della salute riferendosi direttamente a Big Food, Big Soda, Big Alcohol e Big Tobacco: “Pur di proteggersi si servono di gruppi di facciata, promesse di autoregolamentazione, mediante la ricerca finanziata confondono l’evidenza scientifica… regali, borse di studio, contributi a cause meritevoli che dipingono queste industrie come soggetti rispettabili agli occhi dei politici e della cittadinanza”. I dati di un nuovo studio pubblicato sull’American Journal of Preventive Medicine (2017) confermano le parole di Chan.
Gli autori hanno trovato che, dal 2011 al 2015, Coca-Cola e Pepsi hanno finanziato 95 organizzazioni, tra cui Save the Children e il Centers for Disease Control and Prevention, il più importante istituto di sanità pubblica statunitense. Anche in Italia Coca Cola ha finanziato importanti progetti di prevenzione, come EUROBIS, la campagna di lotta all’obesità infantile curata dall’Università di Perugia.
Nonostante le forti pressioni delle lobby alimentari e del tabacco è possibile pianificare interventi adeguati, in grado di ottenere risultati sia sul piano economico sia in termini di salute pubblica, come dimostrano molte esperienze. In Egitto, nel 2010 le tasse sulle sigarette sono aumentate del 46%, portando ad una contrazione delle vendite del 14% e ad un incremento delle entrate del 151% in due anni. In Ungheria, invece, dove dal 2011 è in vigore una tassa sulle bibite zuccherate, i consumi sono scesi in media del 27%. Alcune nazioni si sono spinte oltre, elaborando strategie per sradicare il tabagismo entro un determinato periodo, come la Nuova Zelanda e l’Irlanda entro il 2025 e la Finlandia entro il 2040. Anche in Italia un gruppo di esperti in sanità pubblica, capeggiato dall’Associazione Italiana Epidemiologia, ha elaborato un manifesto di “fine corsa” del tabacco (www.tobaccoendgame.it), in cui si chiede ai politici di adottare interventi per vincere il tabagismo in 25 anni, il primo tra i quali è l’aumento della tassazione.
Sempre più Paesi stanno introducendo misure di tassazione all’interno dei loro sistemi ma potrebbe non bastare: dal 1° ottobre 2017 verrà infatti liberalizzato il mercato dello zucchero in Europa, con il rischio che un calo dei prezzi possa portare a un aumento del suo consumo. L’Italia non sembra aver colto l’importanza di queste politiche: durante l’ultima Assemblea mondiale della salute, il nostro Paese si è espresso in maniera contraria al documento sulle azioni efficaci richieste per combattere le malattie non trasmissibili, tra le quali si trova proprio l’aumento della tassazione.
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