Altre Economie
Super poteri al super
Sfruttando la propria posizione di forza, la grande distribuzione impone scelte commerciali ai fornitori, trasferendo su di loro il rischio d’impresa. Ecco come
Entro nel supermercato sottocasa per comprare gli spaghetti, guardo sullo scaffale e mi trovo a scegliere tra la marca X e quella Y. Penso che si tratta di una possibilità di scelta ristretta rispetto ai circa 130 pastifici industriali attivi in Italia e alle centinaia di marche che affollano il settore. Vale per tutti gli altri prodotti, dai dentifrici alle conserve di pomodoro: quando varco le soglie di un punto vendita della grande distribuzione, scelgo tra un numero esiguo di prodotti e produttori e sono subordinato alle decisioni prese da qualcun altro. Questione di assortimento, direbbero gli addetti ai lavori.
L’assortimento non è un elemento secondario nella politica delle catene distributive: rappresenta “l’identità” di un distributore e ha il compito di “selezionare” la clientela che frequenta un determinato punto di vendita. “La natura dell’assortimento -dichiara Maria Grazia Cardinali, ricercatrice dell’Università di Parma- è il fattore più importante che influenza la scelta del consumatore e la sua fedeltà a una catena distributiva”. Così si sceglie il supermercato per comodità, perché è vicino a casa oppure sul tragitto casa-lavoro. Ma quando l’offerta sembra tagliata su misura per noi il richiamo è irresistibile.
È il supermercato a scegliere i propri clienti, non viceversa.
La formazione di un assortimento è frutto di una contrattazione commerciale che coinvolge l’azienda che produce il bene, salame o shampoo che sia, e il distributore che poi lo dovrà vendere nei propri punti di vendita. Le aziende, per mettere un prodotto sullo scaffale di un supermercato, devono pagare -e non poco- la catena stessa, che secondo i detrattori trasferisce, attraverso questi pagamenti, una parte del proprio rischio d’impresa ai propri fornitori.
Figura chiave della contrattazione è il compratore (o buyer, nel gergo), che si occupa di trattare l’acquisto dei prodotti per conto della catena distributiva e definire le clausole contrattuali che regolamenteranno l’operazione. All’aumentare dell’importanza della grande distribuzione organizzata (gdo) come canale di sbocco commerciale e in presenza di catene distributive sempre più grandi e “concentrate” sotto il profilo degli acquisti dei prodotti, i buyer finiscono per detenere tra le loro mani un potere dirompente. Così le clausole imposte alle aziende che vendono i loro prodotti risultano difficili da digerire, tanto più che il tessuto produttivo italiano, soprattutto nell’alimentare, è formato da circa 6.600 imprese, in larga misura di dimensioni medio piccole, quindi con un potere di contrattazione ridotto. Perché, per un’azienda, rimanere fuori dalle catene della gdo significa perdere l’occasione di rivolgersi a un pubblico di massa, quindi di avere grandi difficoltà a operare sul mercato.
Con la garanzia dell’anonimato abbiamo raccolto la testimonianza del responsabile marketing di una importante azienda dell’alimentare italiano, che ci ha svelato il percorso “contrattuale” che i suoi prodotti compiono prima di arrivare sullo scaffale della distribuzione e fare luce su alcune pratiche non proprio ortodosse che le catene mettono in atto durante la contrattazione con le aziende. “Inserire nuovi prodotti in una catena distributiva -spiega il manager- oggi è molto difficile, soprattutto per un’azienda di dimensioni medio-piccole. Gli scaffali sono pieni, gli spazi sono sfruttati all’osso e i distributori stanno facendo di tutto per ridurre e razionalizzare l’assortimento, cercando di appoggiarsi a fornitori di grandi dimensioni che permettono loro di ridurre alcune voci di costo, come la logistica”. In altre parole, le catene prediligono trattare con grandi aziende, che controllano più marchi in vari mercati e hanno le dimensioni adatte per presentare loro un “pacchetto completo” di prodotti e servizi (trasporto, conservazione) più convenienti.
Uno scenario “concentrato” che certo va a scapito dei più piccoli. “La contrattazione per noi -prosegue il direttore marketing- è molto complessa: occorre convincere i compratori delle catene distributive che il nostro prodotto può dare un maggiore valore alla categoria, ossia interessare il consumatore per vari motivi, dal packaging a una particolare ricetta”. Convinto il buyer si inizia a parlare di soldi, in particolare del listing fee, ossia del contributo che un’azienda deve pagare per potere inserire un suo prodotto in una catena, su uno scaffale in una determinata posizione, il più possibile favorevole per intercettare gli occhi dei consumatori. Si tratta di un costo molto rilevante, costruito su molte variabili, di difficile schematizzazione, ma che rappresenta un’entrata non secondaria per la grande distribuzione (gdo).
Secondo Il Sole 24 Ore i listing fee nel 2006 andavano da 800 a 1.500 euro per ogni prodotto e per punto di vendita: numeri che fanno capire quali sono le cifre in ballo. “Più in generale -spiega il manager- possiamo dire che per alcuni prodotti di scarso successo commerciale è difficile ripagare l’ammontare del listing fee con le vendite, e questo la dice lunga su quanto questo contributo possa incidere sulla vita di un’azienda”.
Altri contributi che le catene chiedono riguardano le attività promozionali -le aziende pagano per finire sul volantino che pubblicizza i prodotti in sconto, oppure per esporre i prodotti su quegli scaffali che racchiudono tutti i prodotti in promozione in particolari aree preferenziali del supermercato-, una serie di premi legati al raggiungimento di determinati obiettivi di vendita e ulteriori voci, che variano da catena a catena e spesso sfociano in comportamenti non certo improntati alla massima trasparenza, come gli sconti retroattivi, le modifiche unilaterali dei contratti dopo la stipula, le richieste di contributi aggiuntivi determinati dall’andamento fiacco dei consumi e altre pratiche ai limiti della legalità.
Non stiamo parlando di bruscolini: secondo dati di Cermes Bocconi, il trade marketing per le imprese del settore dei salumi nel 2005 ammontava, in media, al 18,5% del fatturato. “Altro punto dolente è la formazione del prezzo di vendita di un prodotto. Su questo aspetto la catena distributiva può fare scelte del tutto indipendenti dalla volontà delle aziende, secondo la logica terra terra per cui a casa propria comandano loro. Le aziende cercano di farsi valere, per esempio con l’escamotage del “prezzo consigliato” stampato sulla confezione, fattore di pressione morale sulla volontà del distributore, ma che non comporta alcun obbligo per le catene, che possono decidere di non seguire l’indicazione. Più importante è la marca, maggiori sono le attenzione che riceve”.
Mi faccio lo sconto
In un documento la casistica delle pratiche diffuse
Nel 2009, un’importante associazione di categoria dell’alimentare italiano ha raccolto in un documento quelle che ha definito “Alcune pratiche abusive sperimentate in Italia”, corredandole con esempi relativi ai mesi precedenti.
Quel che ne è emerso è un quadro interessante delle pratiche che la grande distribuzione mette in atto nei confronti dei propri fornitori. Si tratta ovviamente di pratiche legittime e legali, che tuttavia denotano il profondo squilibrio relazionale di cui gode la gdo rispetto ai produttori -specie medio piccoli e soprattutto del settore alimentare- che vendono attraverso di essa i propri prodotti. Il documento elenca cinque “categorie” di pratiche, e per ciascuna racconta degli episodi.
La prima “casistica” è quella che attiene la richiesta di “remunerazione” per l’inserimento di merci o servizi in una lista di referenze, oppure per il mantenimento del prodotto nell’assortimento o anche per “contribuire” a nuove aperture di punti vendita o ristrutturazioni. Si fa l’esempio di GS spa (Gruppo Carrefour Italia) che nel 2009 ha inviato ai propri fornitori una richiesta di “contributo straordinario” giustificato dalla nuova apertura di supermercati e punti vendita di vicinato. Questi contributi non erano previsti dal contratto e sono stati inseriti nella seconda parte dell’anno.
Una seconda tipologia è quella che riguarda la remunerazione di “servizi di cooperazione commerciale”, senza che questa sia stata definita con precisione. L’esempio: a fine febbraio 2009 Si.sa. spa ha inviato ai propri fornitori una fattura bimestrale con la dicitura “acconto premi fine anno e compensi promozionali sul fatturato 2009”, giustificata dalle “aggravate vicende economiche nazionali e internazionali che hanno gravato i nostri soci e clienti”.
Terzo caso: ottenere sconti, premi, contributi, storni, o la remunerazione di accordi di cooperazione commerciale con effetto retroattivo. È il caso del Gruppo Carrefour Italia, che nel luglio 2009 ha deciso di “premiare la fedeltà dei propri clienti” in tempo di crisi con sconti sulla spesa per tutti i titolari di carta fedeltà. Al fine di remunerare questa iniziativa, il gruppo ha richiesto un contributo straordinario a tutti i fornitori delle merceologie fresche: uno sconto pari al 20% sul consegnato di una settimana. In pratica, uno sconto retroattivo per ripagare di una promozione unilaterale.
Anche Sma/Auchan, nel novembre 2008, aveva inviato ai propri fornitori una richiesta di contributo straordinario per lo stesso anno. Un “ulteriore sforzo in termini economici” giustificato “dall’accentuarsi della crisi dei consumi”, utile anche per “preservare nel futuro la possibilità di sviluppare business insieme”.
Sempre nel 2008, anche il Gruppo Metro aveva inviato una richiesta di “contributo straordinario” non previsto contrattualmente “a parziale sostegno delle iniziative del 2008”.
Ottenere sconti, premi e compensi per il semplice rispetto dei termini di pagamento è una quarta casistica. Uno sconto, scrive l’associazione, previsto in molti contratti base della gdo, che premia il rispetto delle condizione contrattuali pattuite e, soprattutto, le disposizioni di legge, come la Direttiva 2000/35/Ce, recepita in Italia con il decreto 231 del 2002, il cui scopo era uniformare la disciplina dei pagamenti all’interno dell’Unione europea, visto “il diffuso ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie nell’ambito delle transazioni commerciali”. Riguardo in particolare ai prodotti alimentari deteriorabili, la legge prevede che il pagamento debba essere fatto entro 60 giorni dalla consegna.
Infine, l’associazione sottolinea la diffusa pratica di respingere o restituire merci, o di dedurre penali o riduzioni corrispondenti al mancato rispetto di un obbligo contrattuale, senza che il fornitore sia stato messo in condizioni di controllare adeguatamente la contestazione fatta. Nel 2009, una grande catena ha inviato ai propri fornitori lettere finanziarie relative a prodotti “non idonei alla vendita”, per i quali venivano quindi trattenute cifre compensative dai pagamenti. Non vi era indicazione precisa dei prodotti (referenza, consegna, lotto) e dei motivi di questa mancata “idoneità”. I prodotti di solito non vengono resi e non si può verificare. In alcuni casi, l’importo trattenuto è calcolato su un prezzo diverso da quello di fornitura.