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Stranieri in patria

I figli di genitori stranieri nati nel nostro Paese possono ottenere la cittadinanza italiana senza particolari trafile, a patto che lo facciano tra il diciottesimo e il diciannovesimo anno di età. Una possibilità che però è poco conosciuta

Tratto da Altreconomia 130 — Settembre 2011

“Non potremo diventare gli Obama italiani”, ma nemmeno diventare insegnanti, avvocati, magistrati, ingegneri, architetti, poliziotti e svolgere qualsiasi altra attività che preveda l’accesso alla professione attraverso un concorso pubblico. Esprime così la sua indignazione un ragazzo di origine straniera all’interno del forum della Rete G2 (www.secondegenerazioni.it), associazione che si batte per il riconoscimento dei diritti di cittadinanza ai giovani nati o cresciuti nel nostro Paese da genitori immigrati.
Si trovano oggi in questa situazione circa 900mila giovani che parlano, pensano e sognano in italiano, hanno frequentato fin dell’infanzia le nostre scuole, e tuttavia devono sottoporsi alle estenuanti pratiche burocratiche per ottenere il permesso di soggiorno, con uno spirito di sacrificio molto meno sviluppato (e giustificato) rispetto a quello dei propri genitori, immigrati per davvero e per propria volontà.Le statistiche sono incerte e parziali poiché tentano di descrivere una presenza anomala e inedita, quella di una generazione di “italiani col permesso di soggiorno”, riconosciuti lungo il percorso scolastico in qualità di “alunni stranieri”, ma invisibili alle analisi demografiche nel momento in cui superano la maggiore età e da “figli di immigrati” divengono per la nostra legge stranieri tout court, alla stregua dei neo arrivati sul suolo italiano. Sappiamo per certo però che è una generazione destinata a crescere vertiginosamente e a ringiovanire il nostro assetto demografico, come ci prospetta una recente proiezione della Fondazione Agnelli (2010). In seguito alla “grande regolarizzazione” Bossi-Fini del 2002/2003 e ai suoi effetti di stabilizzazione lavorativa, legale e abitativa per un gran numero di cittadini stranieri, numerose famiglie immigrate hanno infatti deciso di mettere al mondo un figlio, il cui arrivo era stato fino ad allora rinviato per condizioni di precarietà. Si tratta di un vero e proprio “baby boom” nel 2004, registrato dalla scuola primaria a partire dal 2010, col conseguente sorpasso delle seconde generazioni all’interno della popolazione scolastica straniera (www.fga.it). In altre parole, quando parliamo di percentuali elevate di alunni stranieri nelle nostre scuole, stiamo parlando ormai sempre di più di bambini e ragazzi che “sono qui da una vita” e che crescono sugli stessi banchi dei propri coetanei autoctoni, accorgendosi a un dato punto di essere considerati diversi dagli altri. Il diciottesimo anno, in particolare, segna un passaggio cruciale nella loro biografia. Per i nati in Italia da genitori stranieri costituisce il momento in cui poter richiedere il riconoscimento della cittadinanza: lo prevede la legge 91 del 1992. Non ci sono test da fare, né spese da sostenere. Unico vincolo: ci sono 12 mesi di tempo per avvalersi di questa possibilità. Spesso i ragazzi non sono informati rispetto a questa “finestra” e si ritrovano in breve tempo diciannovenni senza più nessuna priorità rispetto alla popolazione straniera generica.
Per colmare questo vuoto informativo, alcuni enti pubblici si stanno muovendo. È il caso di un gruppo di 287 Comuni toscani ma anche del Comune di Milano. I figli di stranieri nati in Italia nel 1993, cioè che nel 2011 compiranno 18 anni, sono circa 7mila.
Gli altri giovani, arrivati magari a venti giorni, a due mesi, a un anno (spesso i primogeniti), non hanno neanche questa possibilità, si diplomano e si laureano da stranieri nella propria stessa terra. Ma la questione non si risolverà soltanto con un (urgente e non più prorogabile) cambio legislativo che porti a riconoscere anche in Italia lo ius soli (il diritto di essere cittadini in base al luogo di residenza) al posto dello ius sanguinis (il diritto di essere cittadini in base alle origini familiari) come nella maggioranza dei Paesi d’immigrazione.
Al di là della legge infatti, un Paese invecchiato e insicuro tende a guardare con diffidenza ed estraneità giovani che a loro volta percepiscono un senso di distanza nei propri confronti.

* Anna Granata, psicologa e dottore di ricerca in pedagogia, collabora col Centro di ricerca sulle relazioni interculturali dell’Università Cattolica di Milano ed è autrice del volume di recente uscita “Sono qui da una vita. Dialogo aperto con le seconde generazioni” (Carocci, 2011)

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