Cultura e scienza / Intervista
Stefano Pivato. Storia sociale della bicicletta
Le due ruote sono state un mezzo di libertà e di emancipazione femminile. Oggi identificano il nuovo umanesimo ecologista. Intervista allo storico dell’Università di Urbino
È da quasi trent’anni che lo storico Stefano Pivato, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università Carlo Bo di Urbino, si occupa di sport e in particolare di quella rivoluzione che è stata “l’invenzione della ruota libera” nella sua forma più popolare: la bicicletta. Un simbolo di libertà al quale il professore ha dedicato nel 2019 il libro “Storia sociale della bicicletta”, edito da Il Mulino.
Professor Pivato, perché ha deciso di ripercorrere la storia della bicicletta?
SP Perché considero la storia dell’Italia ripercorsa attraverso la bicicletta un paradigma dell’avversità alla storia della modernità. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, infatti, il “bicicletto” appare come un simbolo eccessivo di modernità e trova molte opposizioni. Non parlo del biciclo, ma di quel modello messo in commercio in Inghilterra dalla Rover nel 1885 che, con le sue due ruote uguali, è più facile da guidare e in meno di vent’anni si diffonde tra gli strati popolari.
A inizio Novecento c’è qualcosa nella bicicletta che spaventa. Di cosa si tratta e chi spaventa?
SP Prima di tutto la velocità. Dobbiamo immaginare che per la prima volta l’uomo scende da cavallo e inforca un mezzo che aumenta di quattro volte la sua velocità. Per le donne, poi, la bicicletta è un simbolo di indipendenza che le allontana dal focolare domestico. I preti -che non possono scomporsi la veste pedalando- la vedono come uno strumento moderno e il modernismo è un’eresia da condannare. Ai militari, soprattutto gli ufficiali, è proibito andare in bicicletta. E più in generale a tutti coloro che rivestono un ruolo pubblico, anche gli impiegati comunali, la bicicletta non si addice, perché espone l’uomo al ridicolo. Scompone le divise e le gonne. Inoltre fino a quel momento il corpo aveva sempre marciato eretto. La bicicletta porta con sé una rivoluzione antropologica nella postura, considerata ridicola. Per questo se guardiamo le foto dei primi uomini in bicicletta notiamo la loro posizione innaturale, quasi eretta. Piegare il corpo in avanti è sconveniente e la donna per farlo deve rinunciare a indossare il corsetto. C’è anche chi afferma -l’antropologo positivista Lombroso- che la diffusione della bicicletta aumenti i delitti e i furti.
Fin da allora, le cifre mostrano una scarsa diffusione della bicicletta a Sud della Toscana. Oggi il Meridione si è riappacificato con le biciclette?
SP Direi di no. Partiamo da un dato: il ciclismo in quanto sport nasce come strumento di pubblicità della bicicletta; gli spettacoli nei velodromi e poi le corse in strada sono funzionali alle vendite. Ma se osserviamo bene non ci sono campioni di ciclismo in meridione, con l’unica eccezione di Vincenzo Nibali, che è messinese. Se molte resistenze sono state vinte è pur vero che al Sud resiste una sorta di “antimodernità”; in questo senso, potremmo parlare di una “questione meridionale” anche per la bicicletta.
Qual è stato e qual è l’uso politico della bicicletta?
SP La bicicletta è di sinistra. Questa è l’estetica della politica. Pensiamo: è stato il fascismo a promuovere e diffondere lo sport, in Italia e nel mondo. Il fascismo (al potere dal 1922 al 1943, ndr) ha usato lo sport in chiave politica, come strumento per il consenso interno e anche per le relazioni internazionali. Benito Mussolini è stato il più grande atleta politico: praticava tutti gli sport, tanto da sembrare Rambo nonostante fosse piccolo, ma non c’è una foto che lo ritrae in bicicletta. Era un amante degli sport del motore; per lui era troppo plebeo andare in bicicletta. Questa idea permane ancora oggi. Il movimento “Critical Mass”, ad esempio, è nato in California, per protestare pedalando contro l’inquinamento da carburanti fossili. Ha mai visto Donald Trump andare in bicicletta? Ha ragione Marc Augé quando dice che la bicicletta è il simbolo di un nuovo umanesimo ecologista. Di sinistra. La bicicletta è uno strumento di energia alternativa, l’energia delle gambe, che rispetta l’ambiente e ci mantiene in salute.
Oltre che per il tema ambientale, la bicicletta ha avuto anche un ruolo importante nella parità di genere.
SP Sì, anche se in Italia questo succede solo durante la Resistenza. A fine Ottocento, il movimento femminista internazionale proclama la bici egualitaria e livellatrice. Perché? Prima di tutto, la donna si libera di un capo di abbigliamento al quale era stata costretta: il corsetto. Nel 1898 Maurice Leblanc pubblica il romanzo “Voici des ailes” (che presto sarà tradotto in italiano): in copertina c’è una donna a seno nudo che monta una bicicletta fornita di un paio di ali. Ma mentre in Francia, Inghilterra e negli Stati Uniti la bicicletta è uno strumento di liberazione delle donne, in Italia -dove resta ancora a lungo una fitta cappa di conservatorismo- non c’è ancora spazio per questo entusiasmo. Nel 1911 due donne rischiano il linciaggio a Milano per aver indossato la gonna-pantalone ideata da un sarto parigino e considerata in Italia un insulto alla morale. La situazione cambia con il fascismo quando il regime, in opposizione alla chiesa, afferma che la donna deve fare educazione fisica, dev’essere una madre sana e robusta, forgiata dallo sport. E poi con la lotta di Liberazione e il ruolo delle staffette partigiane si ha una sorta di rivincita delle donne nei confronti della bicicletta. Un romanzo che racconta questa storia è “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò, del 1949.
E oggi, tra tendenze hipster e gare in costume, pensa che la bicicletta sia ancora pop?
SP Vedo che i grandi stilisti vestono le biciclette. E grandi atleti con biciclette costosissime in fibra al titanio. A dire il vero anche io avevo una “Umberto Dei” di valore, con i freni a bacchetta, ma mi è stata rubata dopo un mese. Da allora uso biciclette di poco costo: è pur sempre questo il destino della bicicletta, essere popolare.
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