Esteri / Opinioni
Instabilità in Medio Oriente, tra conflitti e il rischio di una nuova guerra per l’energia
Nello scenario che immagina il presidente Trump -con l’eliminazione del generale iraniano Qasem Soleimani- si abbinano i successi economici e la creazione di una nuova paura del nemico. È la ricetta ideale del sovranismo in competizione elettorale. Ma le cose possono andare diversamente. L’analisi di Alessandro Volpi
Dopo un lungo isolazionismo da anni Venti, che ha significato il ritiro della presenza statunitense dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Sahel e dal Corno d’Africa, l’amministrazione Trump ha deciso di eliminare il simbolo della rivoluzione sciita iraniana, il generale Qasem Soleimani, spingendosi oltre i falchi repubblicani e innescando una nuova guerra dell’energia, estesa dallo Stretto di Hormuz alla penisola arabica, al Mediterraneo, dove in Libia sono giunte forze armate turche, mentre i russi sono già ben presenti in Siria.
È molto probabile che il presidente uscente avesse bisogno di animare una campagna elettorale fiacca, a cui non basta la festa dei listini finanziari. Di rado, negli ultimi cinquant’anni, il mondo ha visto una simile follia che, probabilmente, al di là degli effetti militari e politici, produrrà un nuovo aggiustamento del mercato dell’energia con un evidente rafforzamento dello shale gas a stelle e strisce capace di fare i prezzi internazionali, insieme alla speculazione, e un forte consolidamento del dollaro, in grado anche di essere svalutato.
Sul piano economico infatti le tensioni in essere, soprattutto se non si trasformassero in scontro aperto, potrebbero produrre risultati positivi per il gigante americano. Il ricordato boicottaggio di Hormuz ad opera dei barchini iraniani può essere in grado di determinare infatti un aumento dei prezzi petroliferi, a lungo fermi tra i 50 e i 60 dollari al barile, danneggiando i grandi produttori come l’Arabia Saudita ma favorendo i gas di scisti e i prodotti più costosi Usa, bisognosi di prezzi sostenuti per essere competitivi; in questo senso, in maniera paradossale, i prezzi alti favoriscono Stati Uniti e Iran, che invece faticano con prezzi troppo bassi, mentre vanificherebbero la strategia di Arabia Saudita ed Emirati di abbattere i prezzi per mettere in crisi i Paesi dove la produzione costa di più a cominciare proprio dall’Iran.
Un’eventuale escalation della crisi genererebbe poi la corsa alle monete rifugio, in particolare verso il franco svizzero, lo yen e il dollaro che verrebbero acquistati a prezzi alti, consentendo nuove iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve, indispensabili per il sistema bancario americano altrimenti a corto. Inoltre, i titoli Usa diverranno ricercatissimi e pagheranno tassi bassi, togliendo spazio a quelli europei costretti ad aumentare i rendimenti.
In questo senso, la crisi peserà anche sul nostro Paese che ha bisogno di energia e di collocamento del debito, due voci i cui costi stanno, appunto, risalendo. In una simile ottica tutto l’universo di titoli che scommetterà sul rialzo dei listini americani e sui bond petroliferi avrà un’impennata ulteriore. Questo è, probabilmente, lo scenario che immagina Trump, dove si abbinano i successi economici con la creazione di una nuova paura del nemico che rappresenta la ricetta ideale del sovranismo in competizione elettorale. Ma le cose possono andare diversamente.
La destabilizzazione dell’area può assumere contorni molto estesi, con ritorsioni in terra americana o contro parti nevralgiche del sistema Usa. Soprattutto potrebbe farsi strada l’idea che la presidenza Trump in piena campagna elettorale non sia più in grado di gestire la propria spregiudicatezza. In questo caso il dollaro e i titoli denominati in tale valuta rischierebbero di perdere attrattività e si rafforzerebbero gli acquisti di “assicurazioni” contro il pericolo incombente sulle Borse, destinate a sottrarre liquidità dai mercati e a impedire alla Fed di intensificare la politica monetaria espansiva. Potrebbe aprirsi, in simili condizioni, una fase di rialzo del prezzo del petrolio con un dollaro fragile, secondo un modello già sperimentato in passato negli anni di Nixon e di Carter, che indebolirebbe gli Stati Uniti e creerebbe spazio per fare dell’euro la vera valuta di riserva mondiale; un’opzione gradita al governo cinese che la utilizzerebbe contro i dazi di Trump.
La decisione di uccidere il generale Soleimani rischia così di avere conseguenze pesanti, e molto diverse, a seconda degli scenari che verranno a profilarsi. Certo, il passaggio dall’isolazionismo ad una politica di guerra minacciata sia in Iran sia in Iraq risulta per gli Stati Uniti, e per il mondo, un azzardo micidiale a cui l’Europa deve mostrare di saper rispondere prima di tutto per sostituire gli stessi Stati Uniti come elemento di stabilità del mercato internazionale, strumento distinto e ben più indispensabile del capitalismo. Senza Europa e senza euro, una crisi così profonda potrebbe dare più spazio al sistema di relazioni delle grandi autocrazie, Russia e Cina in primis, “obbligate” a far a meno degli Stati Uniti. Non è un caso che Anis Nakash, uno degli uomini più vicini a Soleimani, abbia fatto esplicito riferimento a un nuovo sistema di pagamenti internazionali basato sul Mir, una carta russa già accettata in Turchia e in Iran e utile proprio nel mercato dell’energia, in particolare se i prezzi dovessero salire.
Università di Pisa
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