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Sempre più Stato. Come è finita la sbornia delle privatizzazioni

Rispetto all’inizio degli anni 90, il rapporto pubblico-privato in tema di concessioni è completamente cambiato. Sono sempre più numerosi i “campioni” strategici a partecipazione pubblica in vari Paesi, nonostante le regole, talvolta solo apparentemente vincolati, sugli aiuti di Stato. La proprietà non è più sufficiente e diventa necessaria una gestione ripubblicizzata. L’analisi di Alessandro Volpi

© Stuart Guest-Smith - Unsplash

La recente vicenda della chiusura, a più riprese, di un lungo tratto autostradale in Liguria, a seguito del crollo di un viadotto per una frana, ha sollevato una duplice questione. Da un lato emerge, con sempre maggiore evidenza, la difficile condizione di lunghi spezzoni delle autostrade italiane, a cui sembra essere mancata la necessaria manutenzione. Dall’altro, si confermano le criticità di vaste aree del Paese, sottoposte a un costante rischio idrogeologico. Entrambe le questioni, poi, inducono ad evocare da più parti l’intervento dello Stato per procedere alla revoca delle concessioni, finalizzata ad introdurre una gestione pubblica delle infrastrutture, e per un grande piano di investimenti per la messa in sicurezza del territorio. In altre parole, si ipotizza un ulteriore ampliamento della sfera d’azione pubblica che pare decisamente costoso e certo ben poco conciliabile con lo stato del nostro indebitamento pubblico e con i tassi di crescita del Pil.

Rispetto a quest’ultima obiezione, tuttavia, possono risultare opportune alcune considerazioni.
1) Nella situazione attuale, pur in presenza di un debito pubblico molto alto e in rapido aumento, il collocamento dei titoli italiani avviene a tassi negativi, con la possibilità di utilizzare scadenze più lunghe e con una domanda che, in pratica sempre, supera l’offerta. Ciò dipende, oltre che dalla liquidità iniettata dalle banche centrali, dalla pressoché totale scomparsa dell’inflazione e soprattutto dalla forza acquisita dall’euro, in grado di rappresentare una vera e propria valuta di riserva, le cui potenzialità dovrebbero essere, appunto, sfruttate a pieno per sostenere piani di investimento pubblico “virtuosi” ed efficaci nel rianimare l’economia reale; un percorso assai più utile alla ripresa dell’Europa nel suo insieme rispetto a modifiche del Mes o all’introduzione di rating diversificati per i debiti sovrani.

2) Il cattivo stato di manutenzione delle autostrade, a cui hanno fatto seguito le chiusure, sta dimostrando di avere un costo elevatissimo in termini di produzione di reddito per estese zone del Paese. Avere una Regione isolata e, in particolare, dover fare i conti con il blocco del principale porto del Nord-Ovest significa pagare a caro prezzo un’incuria protratta; un costo che, per quanto difficilmente quantificabile, pone in maniera inevitabile la domanda circa l’opportunità della revoca delle concessioni. Certo, una eventuale revoca esporrebbe a potenziali rischi di risarcimenti miliardari, rispetto ai quali sono tuttora in corso utili approfondimenti in merito alla natura originaria delle convenzioni di concessione. Ma tali rischi dovrebbero essere ponderati anche tenendo conto dei ricavi e dei margini di cui dispone oggi il concessionario che nel 2017 ha registrato una redditività di 2,4 miliardi di euro, superiore a un incredibile margine del 50%; una condizione che se protratta fino al 2038, data di scadenza della concessione, rende non del tutto fantasiosa l’ipotesi della convenienza della revoca. Lo Stato italiano dispone oggi pressoché unicamente di una struttura come Anas che, per moltissimi aspetti, non pare capace di sostituirsi ai concessionari; tuttavia continuare a pensare, in particolare dopo le situazioni drammatiche degli ultimi mesi, che una rete di proprietà pubblica, destinata a rappresentare una sorta di monopolio naturale, debba restare in mani private non è forse più del tutto convincente. Sembra esaurita la sbornia delle privatizzazioni, avviatasi, nel caso delle autostrade, nel 1993 per ridurre il debito, ormai non più collocabile sui mercati, e per rientrare nei parametri di Maastricht, prima ancora che per migliorare l’efficienza della gestione.
Come accennato, le condizioni di collocamento del debito sono ora cambiate, l’Italia dispone dell’ombrello dell’euro e le gestioni private hanno mostrato tutti i loro limiti.

3) Rispetto all’inizio degli anni 90, inoltre, sono profondamente cambiati anche i quadri di riferimento internazionali. Sono sempre più numerosi i “campioni” strategici a partecipazione pubblica in vari Paesi, nonostante le regole, talvolta solo apparentemente vincolati, sugli aiuti di Stato, e le infrastrutture, sia materiali sia immateriali, rivestono ormai un crescente rilievo proprio in relazione agli interessi nazionali in quanto oggetto di costante attenzione da parte di investitori esteri, spesso, come nel caso della Cina, di natura pubblica. In condizioni come queste, la proprietà pare non essere più sufficiente e diventa necessaria una gestione ripubblicizzata, magari creando uno strumento ad hoc, che riesca a finanziarsi, in larga parte, con i pedaggi e, quando serve, ricorrendo al mercato.

4) Naturalmente, ampliare l’intervento dello Stato nei cosiddetti “monopoli naturali” implica la rinuncia alla presenza pubblica in settori non strategici, come nel caso del trasporto aereo. Continuare a finanziare retorici prestiti ponte ad una società in perenne perdita come Alitalia risulta una scelta decisamente sbagliata e rischia, seriamente, di minare altre opzioni pubbliche assai più importanti. In estrema sintesi, la definizione del ruolo dello Stato nell’economia dovrebbe essere oggetto di una politica di ampio respiro che tenga conto delle mutate condizioni complessive e che, al contempo, faccia scelte chiare perché lo Stato universale dei sogni non può esistere.

Università di Pisa

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