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Diritti / Approfondimento

Sardegna, isola di pace

Il “Comitato riconversione Rwm” progetta un futuro senza armi nella regione del Sulcis senza perdere posti di lavoro. I modelli a cui guardare, in Italia e in Europa, non mancano

© Marinella Correggia

Herat, Afghanistan, 1999. Gli sminatori dell’associazione “Omar” consegnavano a una spartana fonderia le parti ferrose degli ordigni bellici accumulatisi nel terreno durante i 30 anni di conflitto. Da quel cortile polveroso uscivano zappe e vanghe. Chissà se questo esempio estremo di riconversione dal militare al civile, una versione afghana della visione di Isaia -“Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci”- ha resistito alla guerra che si è riaccesa con i bombardamenti statunitensi nell’ottobre 2001. Sulcis, Sardegna, 2018. La resistenza contro l’export all’Arabia Saudita delle bombe prodotte nella fabbrica Rwm di Domusnovas, controllata del colosso tedesco della difesa Rheinmetall, coinvolge sempre più persone e gruppi. Gli ordigni vanno a finire sulla testa dei civili yemeniti, come hanno hanno dimostrato diverse inchieste giornalistiche ed esposti.

Una domenica di maggio, il sole illumina una marcia per la pace i cui passi ricalcano quelli antichi dei minatori sul Cammino di Santa Barbara, nell’ex bacino carbonifero. Organizza il “Comitato riconversione Rwm” nato nel 2017 dopo due anni di manifestazioni da parte di piccoli gruppi. È netto l’appoggio del vescovo di Iglesias: “Nessuno di noi giustificherebbe che armi prodotte altrove fossero mandate a bombardare le nostre case, scuole e ospedali. Ma le popolazioni dello Yemen non hanno i nostri stessi diritti?”. Alla fabbrica occorre contrapporre “un vero sviluppo del territorio”, sostengono anche il sindaco di Iglesias, altri enti locali, altre chiese, associazioni, parlamentari italiani ed europei.

Il Comitato si impegna per la “riconversione dell’intero territorio dalle attività estrattive e da quelle militari verso l’economia di pace, il lavoro sostenibile, la partecipazione civica al cambiamento, la valorizzazione del patrimonio ambientale e sociale”. Potrebbe costruire il “Metodo Iglesiente” e fare scuola. Teresa Piras del Centro sperimentazione autosviluppo (Csa) ricorda le tappe di un percorso: “Con la chiusura delle miniere, alla fine degli anni Novanta, si progettò la riconversione al militare di quella fabbrica di esplosivi a uso civile. Nel gennaio del 2001 nacque un movimento spontaneo di opposizione alla produzione di bombe, vi partecipammo subito. Una petizione popolare firmata da 11mila cittadini chiese alle istituzioni di sostenere il passaggio a produzioni favorevoli all’ambiente. Non furono ascoltati. Voltai le spalle alla fabbrica, ne dimenticai per anni la presenza dedicandomi al progetto di autosviluppo eco-solidale del territorio sul quale come gruppo di donne avevamo puntato fin dalla chiusura delle miniere. Ma nel 2015, la spedizione delle bombe dall’aeroporto di Cagliari ci risvegliò all’azione”. Accanto all’impegno pacifista, diverse reti solidali lavorano da tempo, continua Teresa, “per nuovi modi di coltivare, produrre, lavorare, abitare, consumare, far turismo in modo etico e sostenibile sulla nostra terra, insistendo su autosufficienza alimentare, biodiversità e autonomia e dignità di contadini e artigiani”.

La chiusura di Rwm e basi potrebbe avvenire “per svuotamento”, facendo crescere tutto intorno un’economia positiva e posti di lavoro, visto che i membri del Comitato hanno ben presente il problema occupazionale? Mentre marciano sul cammino di Santa Barbara (un percorso di 400 chilometri che potrebbe avere una grande valenza turistica) alcuni attivisti si confrontano con partecipanti esterni. Giorgio Pelosio, esperto di tecniche antincendio e risparmio energetico, vede per operai e impresa un possibile futuro affrancato, nella produzione di dispostivi elettronici utili e pacifici. Ma l’ambientalista Angelo Cremone avverte: “Finché c’è mercato, vanno avanti e anzi si espandono…”.

© Roberto Loddo
© Roberto Loddo

Per azzerare il mercato, il Comitato Rwm e i suoi alleati lavorano “perché l’Italia, come hanno già fatto Germania, Olanda e Norvegia, interrompa la fornitura di armi a Riad, rispettando così la Costituzione italiana e la legge 185 del 1990 che vieta l’export a paesi coinvolti in guerra o che violino i diritti umani”, sottolineano i portavoce del Comitato Arnaldo Scarpa e Cinzia Guaita. Del resto, come ha scritto il Cavaliere della Repubblica Franca Faita, già operaia della Valsella Meccanotecnica, “se non si sono più vendute mine antipersona, dopo averne mandate nel mondo 30 milioni, non è stato certo per la consapevolezza da parte dei dirigenti, ma perché la legge 374 del 1997 le ha messe al bando”, grazie anche all’impegno dei lavoratori. La fabbrica fu riconvertita (all’engineering e ai servizi) ma molti lavoratori dovettero trovare lavoro altrove.

E tuttavia proprio sul fronte dell’occupazione, dice il sindacalista della Fim-Cisl Gianni Alioti, “puntare al disarmo, e a processi di conversione e diversificazione nel civile, creando con meno investimenti occupazione per esempio nella green economy, dovrebbe diventare una scelta non solo etica ma di politica industriale e del lavoro”. Anche perché malgrado la crescita imponente delle spese militari nel mondo (il nuovo record segnalato dall’Istituto Sipri di Stoccolma è di 1.739 miliardi di dollari), i posti di lavoro nel settore della difesa “subiscono una progressiva contrazione”, come indica anche l'”Indagine sui siti militari nel Lazio e riconversione dell’industria militare” dell’associazione Lunaria.

Riconversione: buone prassi e occasioni mancate
Negli anni Ottanta l’Unione sovietica inizia a trasferire parte del potenziale dell’industria militare verso il settore civile, leggiamo nel dossier “Industria militare e politiche di riconversione” di Archivio disarmo. E con l’uscita dalla guerra fredda Europa e Italia danno il via a progetti e politiche di emancipazione verso il settore civile con finanziamenti europei come Konver 1 e 2, e i Fondi strutturali: risorse liberate dalla riduzione delle spese militari. A La Spezia, un territorio fortemente dipendente dal militare, viene riposizionata verso il civile tutta la cantieristica navale. Nascerà poi il distretto della nautica, formato da 500 unità.

Altri casi, indicati da un dossier di Gianni Alioti: la più importante realtà eolica in Italia – con oltre 700 occupati – controllata dalla danese Vestas, è nata da un progetto di riconversione nel civile di Aeritalia. E la Oerlikon Graziano di Bari, che produce sistemi di cambio per auto di alta gamma e per trattori, è una diversificazione nel civile dell’Oto-Melara. Con il concorso del consiglio di fabbrica e di varie associazioni per l’ambiente e la pace, la Sirio Electronics in provincia di Firenze diversifica buona parte della produzione dual use (a doppio uso: militare e civile). In Germania negli anni Ottanta i consigli di fabbrica e la federazione sindacale IG Metall elaborano piani di riconversione per affrontare la questione dei posti di lavoro insieme a quella ecologica.

Significativa la lotta dei lavoratori della Aermacchi, nel varesotto. Elio Pagani, che da dipendente prima denunciò l’export illegale di armi al Sudafrica in cui vigeva l’apartheid, poi fece obiezione di coscienza con altri compagni, sottolinea: “Facemmo una piattaforma interna molto avanzata, sia sul controllo della esportazione di armi sia su diversificazione e riconversione. Avevamo proposto soluzioni promettenti: lo sviluppo di velivoli antincendio, i ricognitori ecologici, la co-progettazione di velivoli all’idrogeno… L’azienda non sottoscrisse il piano, ma pochi mesi dopo decise di aprire al civile (che prima era a zero) con il velivolo da trasporto regionale D328”. La politica non ha aiutato: l’Agenzia per la riconversione dell’industria bellica nata nel 1994 grazie alle lotte dei cassaintegrati Aermacchi è stata poi chiusa. E successivamente “la consapevolezza è arretrata, d’altra parte come Italia siamo in guerra dal 1991”.

Elio, ora attivo fra l’altro nel Forum contro la guerra di Venegono, ha ricordato in un convegno del Comitato sardo l’esperienza della Lucas Aerospace inglese. Sistemi d’arma e velivoli. I lavoratori, fin dal 1976, proposero un piano alternativo per il futuro dell’azienda, progettarono autonomamente 150 prodotti alternativi che mettevano sul tavolo delle trattative. No dell’azienda. Ma l’approccio travalicò le mura della fabbrica finché la premier Margaret Tatcher non lo affondò. “Fu persa un’occasione in cui con fondi pubblici si sarebbero potuti creare prodotti con un alto livello sociale e ambientale”.

Comunque, “la conversione al civile e la diversificazione vanno accompagnati con le misure di sostegno alla domanda e agli investimenti. Va rilanciato un nuovo Konver”, afferma Alioti. Tuttavia “non si è mai dato attuazione al fondo nazionale per la conversione previsto dalla 185 del 1990”. Dunque, sempre là sui passi dei minatori, sotto il sole di maggio, Paola Delussu, assessora al turismo e attività produttive si chiedeva: “Per esempio dove sono andati a finire i soldi per la riconversione produttiva della regione mineraria  Sulcis?”  Ora, sembra che le chiese vogliano creare un fondo con l’8 per mille e poi aprire un tavolo di lavoro invitando anche i sindacati per mettere in piedi un progetto.

Per arrivare alla “Sardegna isola di pace”, si dovrà riaprire il capitolo delle basi militari, tanto più quando sono straniere. Intanto, nel 2009 è stata chiusa la base statunitense della Maddalena. “E la leggenda metropolitana della grave crisi che ne sarebbe derivata è smentita dagli stessi dati Istat” sottolinea Mariella Cao del comitato “Gettiamo le basi”. Un caso da approfondire. Come i pochi esempi all’estero di sfratti di basi Usa: “Nel mondo sono 700, anzi 1.300  se si considerano altre infrastrutture, come l’antenna Muos”, ricorda Patrick Boylan dell’associazione “Statunitensi per la pace e la giustizia”. Le sole chiuse, quella di Manta in Ecuador nel 2009 e Manas in Kirghizistan chiusa nel 2001.

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