Economia / Attualità
213 miliardi persi per salvare le banche. Ma per i consulenti privati è stato un affare
Dal 2008 all’ottobre dello scorso anno, i Paesi dell’Unione europea hanno perso oltre 213 miliardi di euro nel tentativo di mettere in sicurezza il sistema bancario, il 28% di quanto investito. Un rapporto del Transnational Institute spiega come un gruppo di quattro grandi società di consulenza -EY, Deloitte, KPMG, PWC- siano i veri beneficiari del business legato agli interventi di “bail out”
Il bail out delle banche europee, i salvataggi che -con modalità differenti- i Paesi membri hanno realizzato tra il 2008 e l’ottobre del 2016, sono già costati alla collettività almeno 213 miliardi di euro, denaro che è perso per sempre.
I soldi che si sono volatilizzati nel tentativo di sostenere le banche in crisi sono pari al 28,4% di quelli “investiti”, in totale 747 miliardi di euro -secondo un’analisi diffusa dal centro di ricerca indipendente Transnational Intitute (TNI), a partire da dati Eurostat-.
Il rapporto guarda a interventi di ri-capitalizzazione, di nazionalizzazione o di creazione di good bank e bad bank, per separare attività e passività delle banche, e chiamare lo Stato a farsi carico di queste ultime.
Per dare un’idea di quanti siano 213 miliardi di euro, basti pensare che potrebbero coprire la spesa annuale per l’istruzione, dall’asilo alle superiori, di Germania, Italia, Danimarca e Repubblica Ceca; o quella in Sanità di Spagna, Svezia, Austria, Grecia e Polonia; o ancora, infine, sono pari al prodotto interno lordo della Finlandia sommato a quello del Lussemburgo.
Per calcolare la perdita netta, i ricercatori che hanno curato il rapporto -Sol Trumbo Vila e Matthijs Peters- non hanno guardato alle operazioni in corso, ma a quelle concluse. Nel conto, cioè, non ci sono ad esempio gli 8 miliardi di euro che lo Stato italiano utilizzerà per il salvataggio di Monte dei Paschi di Siena, ma ci entreranno, eventualmente, le “minusvalenze” che lo Stato dovesse quando cercherà di rivendere la banca “nazionalizzata”. Se, ad esempio, MPS tornerà privata per 4 miliardi di euro, la collettività ne avrà persi altrettanti.
Con il rapporto “The Bail Out Business”, però, TNI va oltre l’analisi di ciò che è stato, provando a costruire una “filiera delle responsabilità”, e ad individuare chi -negli ultimi otto anni- ha costruito un solido business fondato sulla redazione dei “piani di salvataggio”. Sono le grandi società di consulenza, EY (già Ernst & Young), Deloitte, KPMG e PWC, che per scrivere questi progetti, anche quelli che si sono rivelati fallimentari, hanno ricevuto compensi milionari, e monopolizzano il mercato della revisione dei bilanci e della consulenza: le 4, ad esempio, offrono il proprio servizio al 98% delle 350 imprese dell’indice di Borsa di Londra (FTSE).
Gli autori dello studio, analizzano il ruolo di questi soggetti a partire da casi concreti. Ci sono i più eclatanti, come il salvataggio dell’inglese Royal Bank of Scotland, che ha comportato per il governo di quel Paese una perdita netta di 34 miliardi di euro: consulenti della società sono stati Deloitte e in seguito (dal 2016) EY.
Altre storie sono in grado di evidenziare come le Quattro Grandi della consulenza, che nel 2015 hanno registrato un fatturato complessivo di 115,5 miliardi di euro, abbiano operato in condizioni di potenziale conflitto d’interessi, o senza avvedersi dello tsunami in arrivo: qui, il rapporto del TNI cita anche Banca Marche, il cui bilancio era controllato da PWC -e infatti anche alla società di revisione sono stati richiesti i danni, nell’ambito di un’azione risarcitoria, dal nuovo organismo guidato da Banca d’Italia che ha preso il controllo dell’istituto marchigiano dopo la “risoluzione” del novembre 2015-.
A descrivere più di ogni altro caso la pervasività di questo sistema è, probabilmente, quello della spagnola Bankia, nata nel 2011 dalla fusione di 7 casse di risparmio regionali. Oltre a Deloitte e EY, il “salvataggio” -che avrebbe comportato perdite per almeno 16 miliardi di euro- ha coinvolto anche Lazard, banca d’affari Usa ma registrata nel paradiso fiscale delle Bahamas, 2,2 miliardi di euro di fatturato nel 2015.
Deloitte si sarebbe resa responsabile di aver certificato dei bilanci errati, nel 2011, l’anno in cui Bankia venne creata e quotata in Borsa. La distanza tra il dato reale (4,3 miliardi di rosso) e quello comunicato (300 milioni di utili) è di quasi 5 miliardi di euro. Secondo il Banco de España, Deloitte avrebbe commesso almeno 12 errori analizzando i conti di Bankia. Per i propri errori, l’azienda è stata multata di appena 12 milioni di euro. Deloitte, inoltre, è stata solo momentaneamente allontanata dal novero dei consulenti di Bankia, dov’è stata sostituita da EY: nel 2014 venne di nuovo messa sotto scontratto per occuparsi della revisione dei conti dei fondi pensione delle banca.
Nel frattempo, l’ex direttore di Bankia, Rodrigo Rato, è a processo: prima di occupare quel posto era stato direttore generale del Fondo monetario internazionale (l’organismo che ha supervisionato il salvataggio di Bankia) e aveva lavorato anche per Lazard, cui avrebbe garantito consulente per 16,4 milioni di euro ricevendo in cambio denaro su un conto estero.
È un circolo vizioso, alimentato anche dalla Banca Centrale Europea: l’istituto con sede a Francoforte, guidato dall’italiano Mario Draghi, ex banchiere d’affari per Goldman Sachs, avrebbe fatto ricorso in alcuni casi alle stesse Quattro Grandi società di consulenza per l’analisi della situazione dei banchi sottoposti alla sua supervisione.
Secondo TNI, per uscire da questa situazione potrebbe essere messo in atto un cambio di prospettiva: è se l’aiuto pubblico si traducesse in un controllo pubblico degli istituto di credito? Se la nazionalizzazione fosse “reale”, ovvero garantisse la possibilità di occupare le posizioni apicali delle banche e modificarne le politiche di credito? “Una banca pubblica -spiega il rapporto- può garantire servizi finanziari vitali per la cittadinanza: prestiti anti-ciclici, che abbiamo una lunga scadenza o rispondano a criteri di sostenibilità ambientale; e democratizzazione dei processi decisionali”.
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