Cultura e scienza / Intervista
Sahra Mani. Il sacrificio delle donne afghane nel silenzio del mondo
Con il film “Bread & Roses”, prodotto da Jennifer Lawrence e la Nobel per la Pace Malala Yousafzai, la regista racconta la resistenza delle attiviste dopo la presa di Kabul dei Talebani nell’agosto 2021. Tre anni e mezzo dopo la situazione è disastrosa. Le immagini, girate in prima persona dalle protagoniste, raccontano il coraggio e la sofferenza di vivere sotto il regime. “Un apartheid di genere”, denuncia Mani
Un caotico mercato di Kabul, lo strombazzare delle auto che schivano le bancarelle, una donna con un vestito colorato che cammina tra le strade della capitale dell’Afghanistan recitando una poesia. “Mia madre crede che i sogni rivelino il futuro: per vanificare un incubo bisogna raccontarlo alla pioggia. Dopo la festa di fidanzamento ho sognato la Moschea blu, la gente che pregava e faceva vita normale. All’improvviso cadde un fulmine: i panettieri portavano il pane nelle bare e cominciavano a piovere sassi. Quando mi svegliai condivisi il mio sogno con la pioggia”.
Improvvisamente i colori si spengono e arriva il buio lasciando spazio alla marcia dei Talebani, la loro riconquista di metà agosto 2021. La struggente scena che apre il film “Bread & Roses” (disponibile da fine novembre su AppleTv), racchiude l’incubo che da quel giorno vivono nel Paese migliaia di donne e del prezzo che sono disposte a pagare per far sentire la loro voce.
Quella voce che la regista di origini afghane Sahra Mani ha deciso di far conoscere al mondo, per denunciare l’orrore del regime. Non trattiene le lacrime spiegando i molteplici significati del titolo. “Il pane perché le famiglie sono costrette a vendere i loro figli per acquistarlo -spiega- la rosa perché per me rappresenta la dignità. Quella perduta da queste persone nell’assoluto silenzio del mondo”. Che quelle potentissime immagini riprese in prima persona dalle protagoniste del film che rischiano quotidianamente la loro vita vogliono rompere.
Mani, le sue sono lacrime di rabbia?
SM Crollo al pensiero che queste storie siano dimenticate e ignorate dal mondo. Conosco tante donne che sono morte, altre che sono sparite e di cui non si sa più nulla, altre che hanno venduto loro figlio per sopravvivere. Sono storie vere.
Nel 2019 usciva nelle sale “A thousands girls like me” con cui raccontava l’inefficacia del sistema giudiziario afghano nel tutelare le donne. Si sarebbe mai immaginata che le cose potessero peggiorare così tanto nel giro di quattro anni?
SM No, non avrei mai pensato che i Talebani sarebbero tornati. Credevo che un giorno, forse, si sarebbe raggiunto un accordo e avremmo dovuto rinunciare a parte dei nostri diritti. Oggi siamo in guerra. Bombardano le città, le scuole femminili, vengono uccise le donne incinta, i neonati, chi semplicemente partecipa alle celebrazioni di un matrimonio. Quello che succede è di una gravità inaudita.
Com’è nato questo film?
SM Con la caduta di Kabul ho deciso che dovevo fare qualcosa sapendo che le donne sarebbero state coloro che avrebbero pagato il prezzo più alto. E così è stato. Hanno perso il lavoro ma allo stesso tempo per molte famiglie erano l’unica forma di sostentamento. La povertà e la necessità di scendere in piazza per rivendicare il diritto di esistere sono diventate sfide quotidiane. In quel periodo ho cominciato a lavorare con alcune Ong per sostenere le loro battaglie e ho iniziato ad entrare in contatto con un numero sempre più alto di donne che, attraverso i video, mi raccontavano la difficoltà del loro essere attiviste in un sistema di oppressione. Mano a mano, ricevendone sempre di più, ho capito che hanno cominciato a fidarsi di me come film-maker e allo stesso tempo mi chiedevano implicitamente di fare qualcosa. L’interesse di Jennifer Lawrence è stata la svolta. Anche se proporre “Bread & Roses” non è stato facile.
Perché?
SM Da ormai otto anni stavo lavorando su un altro film e avevo presentato il progetto al Festival di Venezia per una coproduzione. Raccontava l’unica scuola di musica esistente in Afghanistan a Kabul: avevo tanto materiale ed era quasi tutto pronto. Proporre “Bread & Roses” era una scelta estremamente difficile: non ero sicura di reggere emotivamente e soprattutto significava non poter tornare più nel mio Paese a pubblicazione avvenuta. Mi sono resa conto che, però, era l’unica scelta possibile. Perché poteva essere il modo più concreto per aiutare le lotte delle attiviste e farle conoscere al mondo.
La qualità delle riprese e delle immagini è altissima, nonostante siano scene di vita quotidiana spesso riprese di nascosto.
SM Riuscirci è stato molto complicato. Dopo aver costruito una squadra sul campo con dei cameramen professionisti, un uomo e una donna, e poi piano piano abbiamo insegnato alle protagoniste a filmare la loro vita. Io mi sono trasferita per un anno e mezzo al confine con l’Afghanistan e da lì ho coordinato l’équipe che era sparsa un po’ in tutto il mondo, dal Pakistan alla Svezia, dalla Francia fino agli Stati Uniti. Ma l’elemento logistico era tutto sommato il più semplice se paragonato alla fatica emotiva. Avevo a che fare tutti i giorni con storie di perdita, resilienza, speranza, sofferenza ma soprattutto esistenze in bilico. A volte le attiviste sparivano per giorni, mesi, settimane e noi perdevamo traccia di loro.
Zahra Mohammadi fin da subito organizza la resistenza, Sharifa, ex dipendente del governo, è costretta a nascondersi in casa mentre Taranom è costretta a fuggire in Pakistan. Che cosa accomuna le tre protagoniste?
SM Tutte sono giovani e talentuose, con idee moderne. Rappresentano coloro che potevano costruire il futuro del Paese ma vengono costrette a stare nelle loro case, che da tre anni e mezzo sono diventate prigioni. All’inizio i Talebani hanno tolto l’accesso all’educazione, poi il lavoro, poi l’impossibilità di uscire senza accompagnatore. Ma anche pregare, piuttosto che cantare da dietro una porta per richiamare l’attenzione di chi è fuori. Il regime vuole fare il deserto per poter radicalizzare il più alto numero possibile di giovani e una madre acculturata è l’ostacolo più grande che si possa avere. E non è un caso che oltre a colpire gli ospedali in cui le donne partoriscono limitano anche l’accesso alle facoltà di ostetricia e infermieristica che è cruciale per il tema della maternità. Da tre anni e mezzo abbiamo avuto solidarietà dal mondo ma ora serve di più. A partire dal codificare il “gender apartheid” come crimine contro l’umanità: quello sta succedendo in Afghanistan.
Invece i Talebani sono stati invitati a Doha a sedersi al tavolo con i membri delle Nazioni Unite. Che cosa ne pensa?
SM Non concepisco neanche come sia possibile che un terrorista possa prendere un volo e sedersi al tavolo delle trattative. Chi sta decidendo di lasciare a un gruppo terroristico un pezzo del mondo? Qual è la motivazione politica che sta dietro a tutti questi giochi sporchi? E le donne, le donne dell’Afghanistan stanno pagando un prezzo altissimo. Al giorno d’oggi, sono presenti in casa ma senza alcuna attività sociale, politica ed economica, senza alcun diritto umano di base. Sono passati tre anni e mezzo e penso che sia sufficiente.
Grazie alla storia di Taranom, per sei mesi confinata in Pakistan in un centro per rifugiati che somiglia di più a una prigione, si conosce anche il tragico limbo di chi è in attesa di un visto.
SM Tante delle persone che hanno collaborato con me sono ferme in Iran e in Pakistan. Aspettano una chiamata che non arriva mai. Molti Paesi hanno fermato le evacuazioni nonostante in tantissimi continuino a rischiare la vita, soprattutto chi vive ancora in Afghanistan ed è particolarmente esposto, come attivisti, artisti e registi che sono considerati dei criminali dal regime. Il mondo è giustamente impegnato su tante altre orribili “questioni” ma questo non rende la situazione in Afghanistan meno grave. Eppure dovrebbe interessare a tutti.
Perché?
SM Lasciare il Paese in mano ai terroristi significa decidere sul futuro di tutti. Oggi il mio Paese paga il prezzo più alto, non possiamo escludere che domani sia il mondo intero a farlo per non aver fatto nulla.
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