Esteri / Approfondimento
Ritorno a Gaza dopo bombe e macerie. La sua tenuta è a rischio
A un anno dai bombardamenti sulla Striscia la popolazione è alle prese con una nuova ricostruzione, in un contesto drammatico, lontano dai riflettori. L’Onu e le Ong denunciano, inascoltate, l’oppressione e l’abbandono dei civili
“Ricordo quel giorno di maggio come uno dei più orribili della mia vita. Era la notte prima della fine del Ramadan, come la sera della vigilia di Natale per un cristiano, e sembrava imminente il cessate il fuoco, aspettavamo con ansia l’indomani per essere al sicuro. Ma a mezzanotte sono iniziati attacchi folli, 200 esplosioni in un minuto. Io e la mia famiglia ci siamo stretti al centro della stanza, ero certa che sarei morta, non riuscivo a pensare ad altro. È stata la notte peggiore che abbia mai vissuto”.
Wafaa Alzanin vive a Gaza ed è volontaria e assistente alla ricerca in ambito sanitario. Ricorda così la notte tra il 13 e il 14 maggio 2021, quando, dopo dieci giorni di bombardamenti, 160 aerei da guerra israeliani hanno attaccato 450 “obiettivi” in meno di 40 minuti nella zona settentrionale della Striscia di Gaza, lanciando contemporaneamente 500 colpi. Wafaa ha 27 anni e ha bene in mente anche i bombardamenti israeliani del 2008, del 2012 e del 2014. Quello dello scorso anno però è stato diverso: “Non avrei mai immaginato che un esercito potesse usare una simile potenza di fuoco sulle persone, è stato molto duro e molto disumano”. Il bilancio di quei dieci giorni di guerra lo dimostra: 260 morti -tra cui 130 civili, 66 bambini e 38 donne-, 1.211 persone sfollate, innumerevoli edifici distrutti o danneggiati, tra cui sei ospedali, due cliniche, un ambulatorio e una delle sedi della Mezzaluna rossa palestinese.
A un anno da quei terribili giorni si può osservare che ancora una volta gli abitanti della Striscia di Gaza si sono dati da fare e la ricostruzione è stata portata avanti rapidamente, come spiega Barbara Archetti, presidente di Vento di Terra, Ong italiana che opera in Palestina da vent’anni. “Fin da subito la popolazione si è attivata per sistemare le case e per proporre ai bambini delle attività che restituissero loro una dimensione di vitalità e un’alternativa alla disperazione del momento. C’è stato un incredibile sforzo collettivo per ripristinare le strade, i bacini di raccolta dell’acqua, gli ospedali, anche se non si è potuti arrivare dappertutto”. Del resto il blocco totale che l’intera area vive dal 2007 non facilita la ripresa in un contesto provato da anni di guerra, aggravato dalla pandemia da Covid-19 e da fine febbraio 2022 anche dagli effetti del conflitto in Ucraina. “L’aumento dei prezzi dei beni primari sta cominciando ad essere estremamente critico -spiega Archetti-, all’inizio di aprile di quest’anno era raddoppiato il prezzo della farina e dei suoi derivati. La farina arriva dall’Egitto, il quale per far fronte all’aumento della richiesta interna ha ridotto il passaggio verso Gaza, dove adesso riesce a entrare solo un prodotto davvero scadente”. Ma non è solo una questione economica: “La risposta dell’Europa e del resto del mondo alla crisi in Ucraina ha acuito la sfiducia delle persone -continua la presidente di Vento di Terra-, sentono che c’è un trattamento e un interesse diverso, perché i principi su cui si basa la solidarietà espressa nei confronti del popolo assediato dalla Russia sono il diritto all’autodeterminazione e il diritto a proteggersi da uno Stato invasore e questo non è diverso da quello che hanno vissuto e vivono i palestinesi. La percezione in questo momento è di una differente attenzione e di una discriminazione nel sostenere la popolazione civile nelle due situazioni”.
Di pari passo si spegne la speranza che una soluzione al conflitto possa passare dei tavoli negoziali: “La sottoscrizione degli Accordi di Abramo (promossi dagli Stati Uniti e sottoscritti il 15 settembre 2020 da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain e poi in seguito anche da Sudan e Marocco, con i quali Tel Aviv ha ‘normalizzato’ i suoi rapporti con i quattro Paesi arabi, ndr) non ha fatto altro che confermare la solitudine dei palestinesi che si sentono abbandonati anche da quegli Stati che si erano sempre dichiarati interessati a raggiungere una soluzione giusta”. Al contesto internazionale si aggiungono le drammatiche condizioni in cui vivono i 2,1 milioni di gazawi nella Striscia, un territorio che secondo le Nazioni Unite sarebbe diventato invivibile nel 2020. A due anni da quella soglia la situazione resta drammatica: l’Agenzia Onu per i diritti umani (Ocha) a settembre del 2021 ricordava infatti come l’area fosse -e sia tuttora- una delle più densamente popolate della Terra, dove l’80% della popolazione per sopravvivere dipende dagli aiuti umanitari e il 95% delle persone non ha accesso ad acqua potabile. Almeno metà degli abitanti non ha abbastanza cibo, circa il 60% dei bambini è affetto da anemia e molti hanno problemi di crescita dovuti alla malnutrizione. La continua carenza di energia elettrica si ripercuote poi su servizi essenziali come sanità, acqua e servizi igienici.
Non stupisce che gli abitanti della Striscia abbiano ricominciato a voler uscire: “Prima era difficile andarsene e anche chi riusciva aveva il desiderio di tornare. Adesso i giovani, per la disperazione economica e perché si sentono abbandonati a livello politico e istituzionale, fanno di tutto per andare via illegalmente”, osserva ancora Archetti. E lo conferma l’esperienza di Wafaa che dopo gli studi per diventare dentista ha lavorato come volontaria per la Croce rossa internazionale e altre Ong come Palestine Children’s Relief Fund e dopo quattro anni ha deciso di proseguire i suoi studi lontano da Gaza: “Sono stata ammessa al master in Public health della Boston University e spero di poterci andare il prossimo anno. Dopo l’ultimo attacco la disoccupazione è salita al 70% e per i giovani è ancora peggio: siamo altamente istruiti, ma per noi non c’è lavoro, non c’è prosperità, non c’è futuro. Io voglio avere una carriera e fare qualcosa nella mia vita, ma qui non c’è scelta”.
Oltre la devastazione economica, Wafaa soffre l’impossibilità di movimento: “Quando cerchiamo di viaggiare, è come chiedere di aprire una prigione per farci uscire, bisogna chiedere per favore. Ma io non ho fatto niente, sono totalmente innocente, la mia sola colpa è quella di essere nata palestinese. E per questo non possiamo muoverci, non possiamo lavorare, non possiamo ambire a un futuro migliore. Non abbiamo diritti, è come se fossimo di uno standard inferiore”. È l’apartheid, come proprio dal 2021 hanno denunciato, argomentando in tre distinti report, anche l’Ong israeliana B’Tselem, Human rights watch e Amnesty International, spiegando come Israele stia perpetuando un sistema di controllo e dominio sui palestinesi basato sulla frammentazione territoriale, sulla segregazione, sull’arbitrario esproprio di beni e terre, sulla negazione dei diritti umani, sociali ed economici.
L’80% dei gazawi sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari garantiti in larga misura dalle Agenzie internazionali
La rassegnazione sembra inevitabile: “Gaza viene bombardata, poi si ricostruisce, poi viene di nuovo bombardata e di nuovo si ricostruisce, accade da anni e si fa con molto impegno ma si presta scarsa attenzione al livello di sofferenza che può provare una popolazione che subisce attacchi così violenti con regolarità -riprende Archetti-. Le persone perdono tutto e devono ricostruire ogni volta. Questo è sinonimo di una forza straordinaria che non trova pari ma anche del fatto che la popolazione è allo stremo”. Come questi due elementi riescano a convivere nella popolazione palestinese è stato studiato nelle ricerche portate avanti da Guido Veronese, professore associato di Psicologia clinica e di comunità all’Università degli Studi di Milano Bicocca, con una lunga esperienza in Cisgiordania e nella Striscia, dove oltre a insegnare presso il Gaza Community Mental Health Program, fornisce formazione, supervisione e consulenza ai colleghi.
“Lavorando a stretto contatto con gli operatori sanitari gazawi mi stupivo del fatto che queste persone da un lato si definiscano e si raccontino come traumatizzate ma dall’altro, nella gestione della vita quotidiana e dei loro compiti sul lavoro, riuscissero a elaborare e produrre delle azioni di soccorso di altissimo livello, malgrado le scarsissime risorse a loro disposizione”. I dati ufficiali riferiscono di una popolazione altamente vulnerabile: secondo uno studio del 2017 il 37% degli adulti soffre di disordine da stress post-traumatico (Ptsd), mentre secondo l’Ocha gli adolescenti affetti da questo disturbo sarebbero due su tre. Dopo i bombardamenti del 2014, l’Unicef aveva stimato che almeno 350mila bambini si trovassero in bisogno di supporto psicologico.
“Le statistiche sono allarmanti, il Ptsd nella Striscia è stato definito come un trauma continuo, perché il ‘post’ non c’è. Nel caso dei soccorritori è anche un trauma condiviso, perché gli operatori condividono proprio l’esperienza traumatica con le persone che soccorrono -continua Veronese-. Secondo la ricerca mainstream questo renderebbe l’azione dei sanitari locali meno efficace ma nella mia esperienza vedevo persone molto efficaci, capaci e assolutamente in grado di portare avanti il loro lavoro di professionisti, anche trovando strategie di sopravvivenza in una realtà ai limiti dell’invivibile”. Questa osservazione ha spinto lo psicologo ad approfondire il tema all’interno di cornici teoriche alternative che gli hanno permesso di individuare dei modelli interessanti, verificati poi tramite indagini qualitative e quantitative condotte sul campo. “È emerso che ci sono diversi livelli, da quello individuale ad altri più alti, come quello sociale, culturale, identitario, che forniscono a questi soccorritori delle informazioni che consentono loro di affrontare situazioni ad altissimo contenuto traumatico mantenendo un livello di funzionamento buono, anche in presenza di sintomi di trauma e in condizioni estremamente difficili. Risultano delle persone resilienti che fanno della modalità culturale palestinese, collettivista e molto improntata sulle relazioni famigliari e comunitarie, quel carburante da utilizzare per dare senso a un lavoro che altrimenti risulterebbe difficile”.
Nella Striscia di Gaza c’è infatti un sistema sanitario che lavora sotto altissima pressione, in una condizione di guerra quasi permanente, non solo durante gli attacchi di Israele. Come ha ricordato l’Al Mezan Center For Human Rights in occasione della Giornata mondiale della salute del 7 aprile scorso, “le autorità israeliane vietano l’ingresso di medicinali, dispositivi medici e pezzi per riparare le apparecchiature. Queste politiche impediscono agli ospedali di accedere a risorse diagnostiche e terapeutiche essenziali. Nel febbraio 2022 il ministero della Sanità ha dovuto far fronte a carenze di farmaci e dispositivi medici, con 203 farmaci (di cui il 39% essenziali) e 174 dispositivi medici (di cui il 20% essenziali) a stock zero, cioè con meno di un mese di fornitura. Il deficit permane nei farmaci per le malattie dei reni, del cancro e del sangue, così come per la salute mentale, materna e infantile”. Nonostante questo contesto Veronese dalle sue ricerche ha concluso che “non c’è nella popolazione un evidente declino della salute mentale o delle competenze, ma sicuramente una stanchezza, una fatica e una scarsa speranza per il futuro che in passato era meno evidente. La mia opinione è che questa capacità di resilienza, che è unica nella popolazione palestinese, dopo l’ultima guerra sta andando drammaticamente declinando”.
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