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La cura del pasto e il ruolo chiave della ristorazione ospedaliera
Un modello virtuoso di filiera alimentare -dalla materia prima al letto del paziente-, unito alla formazione del personale, genera un miglioramento nel percorso clinico e nella qualità della vita. I casi di Bologna e Mantova
Il venerdì mattina, nel chiostro del policlinico Sant’Orsola-Malpighi, nel cuore della città di Bologna, si può fare la spesa dai produttori del territorio. “Le stagioni della salute” è il Mercato della Terra di Slow Food dedicato ai luoghi di cura, con il patrocinio dell’ospedale. Qui, l’incontro diretto con una decina di produttori è un’occasione per “sensibilizzare sul valore del cibo come aspetto importante della cura”, spiega Raffaella Donati, presidente di Slow Food Emilia-Romagna. “I piccoli produttori non possono essere fornitori delle materie prime dei pasti dell’ospedale -perché non hanno un’offerta tale da riuscire a soddisfare la domanda-, allora abbiamo pensato di avvicinare l’ospedale proponendo e organizzando un mercato aperto al pubblico e incontri di approfondimento, coinvolgendo non solo chi frequenta l’ospedale per motivi di cura o di lavoro, ma tutta la cittadinanza”. E questo anche in sinergia con Sirio, la società concessionaria dei punti ristoro del Sant’Orsola, che progressivamente svilupperà il tema dell’educazione al gusto all’interno dei suoi bar.
“Le stagioni della salute” è solo una tappa di un percorso più ampio che il policlinico sta facendo verso una ristorazione ospedaliera più sana e sostenibile. Alcuni dipendenti dell’ospedale hanno seguito un percorso di educazione alimentare con l’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo, a Bra (CN), perché “la consapevolezza alimentare aiuta a trasformare il proprio stile di vita in senso virtuoso, dentro e fuori l’ambito ospedaliero”, sottolinea Marco Storchi, direttore dei Servizi di supporto alla persona del Sant’Orsola. Non a caso questa riflessione ha trovato spazio nel policlinico di Bologna, che conta 1.535 posti letto e 5.150 dipendenti, per circa 70mila ricoveri annui, ed è frequentato ogni giorno da 20mila persone tra pazienti e familiari, personale, studenti e fornitori. “Siamo uno dei pochi ospedali italiani di questa dimensione che ha la gestione diretta della ristorazione, sia per i pazienti sia per i dipendenti”, spiega.
Dal 2012 Storchi lavora per sviluppare il progetto di “Smart hospital”, “un sistema di servizi diffusi innovativo, sostenibile e accogliente, nel quale il cibo è valorizzato come elemento della cura e supporto per restare in salute”. Ogni giorno al Sant’Orsola si distribuiscono 4.500 pasti: 3mila per i degenti (escluse le colazioni, che sono 1.500) e circa 1.500 per i dipendenti, senza contare le consumazioni ai bar. “Come dimostrano i numerosi studi in materia, c’è un rapporto importantissimo tra dieta e terapia, ma ancora oggi non troviamo la stessa attenzione in tutti i medici e tantomeno nel paziente. Inoltre, i pazienti che rientrano a casa portano con sé un messaggio: tutti prendono a modello le pratiche vissute in ospedale, che sono considerate virtuose. Per questo è importante dare messaggi coerenti attraverso il menu e la comunicazione che si fa in ospedale”. Secondo il rapporto “Osservasalute 2017”, in Italia nel 2016 più di un terzo della popolazione adulta (35,5%; il 45,6% tra i 65-74 anni) è in sovrappeso e il 10,4% è obeso. Un fenomeno che si sta diffondendo tra bambini e ragazzi (in Italia il 24,7% è in eccesso di peso, soprattutto tra i 6 e i 10 anni) e che “rappresenta un fattore di rischio per la salute che è connesso all’insorgenza di numerose patologie croniche”.
Per arrivare a una ristorazione sana, buona, sostenibile, il Sant’Orsola ha creato già 5 anni fa un progetto speciale nell’ambito di un’unità organizzativa dedicata ai servizi di supporto alla persona, composta oggi da 180 persone, con un budget annuo di circa 40 milioni di euro. L’unità organizzativa che Storchi dirige si occupa, per la ristorazione e gli altri servizi affidati, della gestione del personale, dei contratti e dei fornitori, con una responsabilità doppia sulla qualità del servizio e sul controllo della spesa. Che viene agita attraverso l’introduzione di processi innovativi. “Cibo per la cura” è il principio in base al quale si sono riorganizzati i servizi di ristorazione, che hanno un costo diretto di gestione di circa 8 milioni di euro l’anno: da commodity, 1 milione e 150mila pasti l’anno -del costo medio di 7 euro l’uno- sono diventati così veicolo di educazione alla salute. E anche risparmio economico.
“Abbiamo riorganizzato la cucina e revisionato gli acquisti per mantenere un buon rapporto qualità-prezzo nelle materie prime fresche e ridurre gli sprechi”, spiega Storchi. Per i menù si è valorizzata la stagionalità dei prodotti, introdotto i legumi come opzione fissa, scelto nuove modalità di cottura e l’uso di materie prime integrali. “Acquistiamo il pane da un forno locale, che prepara i panini con farine poco raffinate e pasta madre, senza imballaggi”. Prima, il pane era tagliato a fette e confezionato in monoporzioni. E anche le stoviglie di plastica usa e getta hanno ceduto il posto a piatti di ceramica e posate di metallo. Nel 2016 è partito il progetto sperimentale “Crunch” (Cucina e ristorazione uniti nella nutrizione clinica ospedaliera), sostenuto da una rete di relazioni sul territorio, come quella con Slow Food. “Nei primi due anni del progetto abbiamo dimostrato che un modello virtuoso di ristorazione ospedaliera, -dalla materia prima al letto del paziente-, unito alla formazione del personale, può generare un miglioramento nel percorso clinico, nella cura e anche nella qualità della vita del paziente, sia in ospedale sia a casa. Con positive ricadute anche sul bilancio dell’ospedale. Si può dire che è una scelta possibile a costi sostenibili”, dice Storchi.
“Abbiamo riorganizzato la cucina e revisionato gli acquisti per mantenere un buon rapporto qualità-prezzo nelle materie prime e ridurre gli sprechi” – Marco Storchi
Un’altra esperienza in questo campo è quella della ASST di Mantova con il progetto “Chef in ospedale: diamo gusto alla salute”. “C’è un paradosso: all’interno dell’ospedale che è il luogo in cui si fa diagnosi e terapia e in cui si deve insegnare ai pazienti a prendersi cura di loro per evitare ricadute o rallentare il decorso di una patologia cronica, i pasti che vengono distribuiti non rispettano nella maggior parte dei casi le indicazioni su una sana alimentazione che ci vengono raccomandate dalla letteratura scientifica; inoltre non c’è alcuna indicazione nelle lettere di dimissione sulla dieta che deve seguire il paziente una volta uscito dall’ospedale”, osserva Consuelo Basili, direttrice del presidio ospedaliero di Mantova. “Secondo gli studi di settore, il 31% delle persone ricoverate soffre di malnutrizione ospedaliera”, ovvero si nutre poco perché non gradisce il cibo proposto. Nell’opinione comune il pasto dell’ospedale è considerato “cattivo” proprio perché deve essere sano. In relatà non è così. “Il purè di patate in fiocchi è il simbolo di queste cattive abitudini -dice Basili-. Non manca mai nei menù ospedalieri, nonostante l’alto indice glicemico”. Nell’ospedale di Mantova oggi il purè è preparato cuocendo le patate fresche in un brodo vegetale e condito con olio d’oliva anziché burro. “Studi scientifici dimostrano come una alimentazione basata sulla piramide nutrizionale della dieta mediterranea aiuti a prevenire le patologie e guarire prima, ma per assurdo ancora in molti ospedali non si seguono queste linee guida, basti pensare ad esempio al prosciutto cotto che viene quotidianamente servito nei reparti”.
Al Carlo Poma si servono 1.400 pasti al giorno tra pazienti e dipendenti, e per rendere il pasto anche più appetibile, oltre che sano, sono stati coinvolti la nutrizionista Maria Chiara Bassi e lo chef stellato Luca Marchini, che affiancano i 26 dipendenti della cucina a gestione diretta. Il pasto salutare e al tempo stesso gustoso serve a invogliare i pazienti a consumare alimenti sani anche fuori dall’ospedale. Oltre a rifare i menù introducendo nuovi prodotti -dai cereali integrali ai legumi- ed eliminandone altri, come gli insaccati e i condimenti a base di grassi animali, è stato portato avanti un percorso formativo con gli addetti alla cucina e con i lavoratori. Il cambiamento, infatti, ha riguardato da vicino anche la loro alimentazione e “non è affatto scontato che un dipendente di un’azienda sanitaria sappia come si deve mangiare -osserva-. La nostra è stata una trasformazione drastica e ancora non è stata capita da tutti; da qui l’importanza di informare e sensibilizzare per accompagnare le persone a comprendere il valore di questo cambiamento”.
Le formazioni in aula e in cucina attraverso corsi pratici sulla realizzazione delle ricette della salute continuano: per i lavoratori, i pazienti e i loro familiari, e anche per i cittadini. Altro obiettivo del progetto è infatti quello di uscire dall’ospedale e contribuire a diffondere in maniera più capillare possibile le informazioni sui corretti stili alimentari. Per questo è stata attivata una rete di partnership locale. Nel frattempo, si prepara una nuova gara d’appalto per le forniture alimentari. “Stiamo costruendo il capitolato con l’aiuto della nutrizionista, sulla base di criteri di stagionalità, filiera corta e agricoltura biologica. Non sarà una gara al ribasso: daremo valore alla qualità delle materie prime e il vincitore dovrà sostenere attivamente l’implementazione del progetto”. I nuovi obiettivi vanno dalla revisione dei prodotti nei distributori automatici alla creazione di aree comuni dove i pazienti potranno mangiare in compagnia. “Un modo per valorizzare la convivialità del pasto e sostenere così il paziente nel percorso verso la guarigione”.
Un altro obiettivo è lavorare con le scuole: “Il corretto stile alimentare si costruisce fin da piccoli ed è un patrimonio che ci si porta dietro. Quei bambini potranno essere adulti che mangeranno in maniera sana e quindi si ammaleranno meno con un minor impatto sul sistema sanitario e anche sociale”. Infine, si sta ragionando anche su come condividere queste esperienze virtuose: le realtà ospedaliere che stanno muovendo passi nella direzione di una ristorazione sana e sostenibile sono ancora poche, perciò la dottoressa Basili e i suoi colleghi stanno curando, in collaborazione con Anna Villarini dell’Istituto Tumori e Marco Storchi, la stesura di un documento di “Linee guida di buon senso per migliorare il vitto dei degenti degli ospedali”, per mettere le pratiche realizzate al servizio della comunità.
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