Economia / Opinioni
Riformare il sistema fiscale italiano per ottenere giustizia sociale
Servono nuove misure per contrastare chi evade il fisco. La tracciabilità dei pagamenti è una di queste. La rubrica “Il dizionario economico dell’ignoto” di Alessandro Volpi
Alcuni numeri sono molto eloquenti e suggeriscono una considerazione semplice che ha a che fare con un vocabolo fondamentale. Il costo totale del servizio sanitario nazionale è pari, ogni anno, a 121 miliardi di euro, come si evince dai numeri della Ragioneria generale dello Stato. Larghissima parte delle sue prestazioni sono gratuite, dall’emergenza alle operazioni più complesse. Gratuite significa che una porzione importante della copertura finanziaria di tali attività non viene pagata a prescindere dal reddito e dal patrimonio. Anche l’italiano più ricco che ha un malore viene trasportato d’urgenza all’ospedale e curato senza che debba sborsare un euro per quanto un bypass coronarico e un’angioplastica costino 25mila euro e ogni giorno in terapia intensiva 2mila euro. L’emergenza e l’urgenza infatti gravano per intero sulla fiscalità generale; vengono cioè pagate con le entrate delle imposte.
In questo senso la spesa sostenuta dal Sistema sanitario nazionale per l’epidemia in corso è stata enorme ed è stata pagata dai contribuenti fedeli. Si tratta di un modello universalistico che registra pochi casi simili nel mondo e che ha bisogno, per essere realmente sostenibile, di una vera fedeltà fiscale da parte di tutti i contribuenti, unitamente ad una altrettanto marcata progressività per cui chi ha redditi e patrimoni più alti deve contribuire di più al sostentamento del Sistema sanitario nazionale. Solo così il sistema può provare a reggere garantendo la qualità e, appunto, l’universalità dei servizi. Oggi sappiamo che non è così perché l’intero carico fiscale italiano è pagato da circa il 40% dei contribuenti, senza considerare tutti coloro che si sottraggono al fisco. Dopo l’esplosione dell’epidemia diventano, allora, ancora meno accettabili tre numeri sconcertanti.
190 miliardi di euro è quanto due milioni di italiani hanno su conti esteri (almeno tre milioni), secondo le stime della rete internazionale di scambio automatico (CRS)
Il primo è quello dei 110 miliardi di evasione fiscale, stimati ogni anno in Italia; una valutazione peraltro certamente per difetto. Il secondo, altrettanto sbalorditivo, è costituito dai 190 miliardi di euro che due milioni di cittadini italiani hanno su tre milioni di conti esteri, secondo le stime della rete internazionale di scambio automatico (CRS). Il terzo sono i 20 miliardi di profitti realizzati in Italia da aziende multinazionali e trasferiti verso Paesi con fiscalità di favore, alcuni dei quali nel cuore dell’Europa, capaci di attrarne ben 17 su 20, come dimostrano le cifre del National bureau of economic research. Si tratta di numeri impressionanti, che naturalmente non vanno confusi tra loro, ma che davvero sembrano, nelle attuali condizioni, non più tollerabili se non si intende affrontare il tema della sanità, rinunciando al suo universalismo e dunque incamminandosi verso l’ignoto.
A tal proposito, occorrerebbe affermare con forza che con i fondi europei, ottenuti attraverso il debito comune, non è possibile ridurre le imposte; non si può fare dal punto di vista formale perché sono risorse destinate agli investimenti e non si può fare perché sarebbe sbagliato farlo. Per riformare il sistema fiscale italiano in direzione di una maggiore giustizia sociale e di una maggiore efficienza bisogna spostare una parte del carico su forme di imposizione europea, a partire dal digitale e dalla finanza; occorre, in altre parole, concepire una nuova visione fiscale in cui il sistema italiano e quello europeo si integrino nel determinare il gettito complessivo. Ma serve, soprattutto, introdurre con convinzione meccanismi di tracciabilità dei pagamenti che costituiscono la strada più efficace per provare a fare in modo che i tre numeri impressionanti sopra ricordati vengano ampiamente, e giustamente, ridimensionati.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa.
Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
© riproduzione riservata