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Ricerca a tempo determinato
Quasi la metà dei lavoratori nei 46 enti pubblici di ricerca hanno contratti a termine. È il caso anche dell’Istat e dei 376 precari sui quali ricade il compito di svolgere una parte rilevante dell’attività, come la produzione di statistiche ufficiali. L’approfondimento nel numero di giugno di Ae con un’intervista a Paolo Weber, direttore generale reggente dell’Istituto —
Il precariato colpisce anche la ricerca pubblica. Il fenomeno riguarda ad esempio l’Istat, i cui ricercatori, tecnologi e collaboratori tecnici con contratto a tempo determinato sono circa il 47% del personale tecnico, e il 17% circa del totale dei dipendenti. Il loro numero è diminuito (nel 2011 erano 419) ma oggi sono ancora 376. Si tratta di precari “attempati” -l’età media è di circa 37 anni-, con alle spalle varie esperienze di precariato in altri enti pubblici di ricerca.
Tutti i 376 assunti nel 2010, quasi tutti con contratto in scadenza a dicembre di quest’anno (4 di loro tra maggio e giugno prossimi).
Il caso dell’Istat non è però un’eccezione. In Italia, in base ai dati forniti dalle amministrazioni dei singoli enti pubblici di ricerca, i ricercatori, tecnologi e collaboratori tecnici con contratto a tempo determinato rappresentano in media quasi il 44% del totale presente in quegli enti. E questo nonostante la produttività media e la qualità di quei ricercatori sia pari a quella dei colleghi europei. Il precario della ricerca in Italia è quindi produttivo, ma non sicuro del posto di lavoro.
“Siamo precari, ma svolgiamo anche le attività ordinarie dell’Istituto” ci spiegano Angelita Castellani, 37 anni e Valeria Pangrazi, di poco più giovane, entrambe collaboratrici tecniche precarie, entrambe assunte nel 2010 e componenti attive del Coordinamento precari dell’istituto. Angelita e Valeria sono solo due di quei 376 precari sui quali ricade il compito di svolgere una parte rilevante dell’attività di ricerca dell’Istat, vale a dire la produzione di statistiche ufficiali.
Per capire quanta importanza ha la produzione di questo dato, pensiamo solo al calcolo del potere d’acquisto dei nostri stipendi, o ai tassi d’interesse indicizzati, noti a tutti coloro che hanno sulle spalle le rate di un mutuo da pagare.
Per questo motivo, l’Istat è definito un ente di ricerca strumentale, ossia svolge una funzione di interesse pubblico, come la produzione dei dati sull’inflazione e il censimento.
Questa non è una caratteristica comune a tutti gli enti pubblici di ricerca italiani: in Italia ne sono presenti 46, ma la maggior parte sono enti non strumentali. Tra questi troviamo i due più importanti enti di ricerca italiani: il Cnr (Centro nazionale delle ricerche) e l’Asi (Agenzia spaziale italiana). Il Cnr, fondato nel 1923 e trasformato in organo dello Stato nel 1945, dal 1989 è sotto il controllo del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (Miur). L’Asi nasce nel 1959 come Istituto di ricerche spaziali del Cnr, e viene istituita nel 1988 come organismo indipendente afferente al Miur. L’Asi ha il compito di sviluppare e diffondere la ricerca scientifica e tecnologica nel nostro Paese applicata al campo spaziale e aerospaziale.
La definizione di ente pubblico non strumentale è stata data in tempi relativamente recenti dalla legge 168 del 1989. Prima di questa legge non era possibile definire un ente pubblico di ricerca in modo univoco. Gli enti pubblici di ricerca non strumentali, sono dotati di autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile. Il che implica l’ottenimento di finanziamenti pubblici, ma con autonomia decisionale circa la loro destinazione, circa l’organizzazione interna (nomine di amministratori, presidenti) e, soprattutto, circa l’indirizzo della ricerca. Devono rendere conto ai ministeri vigilanti, i quali sono i diretti erogatori dei finanziamenti, ma solo attraverso un resoconto periodico sull’attività svolta. L’Istat non ha questo tipo di autonomia. È a tutti gli effetti una diretta emanazione dello Stato. L’attività principale dell’Istituto non è quella di fare ricerca di base o applicata, bensì fare ricerca per scopi di diretta e immediata utilità quotidiana. In questo risiede la sua peculiarità.
La spesa in ricerca e sviluppo in Italia è tra le più basse d’Europa. Il nostro Paese ha speso complessivamente nel 2012 (ultimo dato Ocse disponibile) circa l’1,27% del proprio Pil in ricerca e sviluppo, mentre Paesi come Germania e Francia hanno destinato rispettivamente il 2,92% e il 2,26% del proprio prodotto nazionale alla ricerca. La media europea è inferiore a Germania e Francia ma superiore a quella italiana. Questa “classifica”, che vede la Germania al primo posto e l’Italia all’ultimo, non cambia da circa 12 anni a questa parte. Nel dato sono inclusi università, enti pubblici di ricerca, imprese private e enti no-profit. Considerando la spesa in ricerca e sviluppo effettuata dai soli enti pubblici, la situazione è tuttavia la stessa, con la sola differenza che la Germania ha assunto il primato a partire dal 2011, primato che prima spettava alla Francia.
Per l’Italia la spesa in ricerca e sviluppo da parte degli Enti pubblici è addirittura diminuita, passando dallo 0,55% del Pil nel 2005 allo 0,53% nel 2011. Inoltre, proprio secondo le stime dell’Istat, nel 2013 il computo totale degli investimenti in ricerca e sviluppo da parte degli enti pubblici dovrebbe segnare un calo della spesa del 2,1 per cento. L’Istat, secondo i dati forniti dall’amministrazione dell’ente, si è ritrovato a perdere nel 2014 circa 147 milioni di euro di entrate rispetto al 2013: ammontano ai contributi erogati per lo svolgimento del 15° censimento generale della popolazione e delle abitazioni.
Anche i dati sul Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca (Foe), che include tutti gli stanziamenti statali a favore dei singoli enti afferenti al Miur, sono impietosi. In termini monetari il finanziamento da parte del Miur agli enti pubblici di ricerca è progressivamente diminuito a partire dal 2011, mentre in termini reali diminuiva già a partire dal 2001.
Come ha sottolineato Paolo Valente, ricercatore dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), negli ultimi 13 anni il Foe ha perso complessivamente circa 1,2 miliardi di euro in termini reali, pari a circa 100 milioni di euro l’anno. Con il risultato che una quota sempre maggiore di finanziamenti destinati agli enti pubblici di ricerca proviene da imprese private.
Il che ha prodotto un decisivo cambiamento nella tipologia di ricerca effettuata dagli enti pubblici.
Come spiega Francesco Crespi, docente di Scienza delle finanze all’Università di Roma Tre, “il significativo cambiamento nell’indirizzo delle politiche di ricerca pubblica sembra essere stato condotto con un triplice intento: aumentare la competitività della ricerca pubblica italiana sul mercato, spostare l’orientamento degli enti pubblici di ricerca verso la ricerca applicata e promuovere la ricerca di natura brevettabile”. Questa tendenza viene evidenziata molto bene dai dati in merito. In termini reali, la spesa in ricerca di base da parte degli enti pubblici di ricerca italiani è progressivamente diminuita tra il 2002 e il 2011 del 35% circa, mentre quella in ricerca applicata è cresciuta nello stesso periodo in termini reali del 22,5%. Se la ricerca applicata interessa prevalentemente alle imprese, allora la sopravvivenza degli istituti pubblici di ricerca è sempre più legata alle committenze private. La forte concorrenza che mette in competizione gli enti pubblici di ricerca (dunque anche i ricercatori) per ottenere i finanziamenti, porta necessariamente ad una selezione. Dalla quale, tuttavia, emerge che la continuità operativa del ricercatore è messa in discussione. Secondo Giorgio Sirilli, economista e statistico, dirigente di ricerca del Cnr, “l’Italia sta perdendo i suoi migliori talenti. I nostri più validi ricercatori stanno dirigendosi fuori dal nostro Paese”.
Angelita Castellani, Valeria Pangrazi e molti altri hanno iniziato a mobilitarsi poco dopo il loro inserimento nell’istituto. Hanno subito creato una struttura autonoma e svincolata da tutte le sigle sindacali. Oggi chiedono il rinnovo quinquennale dei contratti in scadenza a dicembre 2014. L’amministrazione Istat, da parte sua, ha dichiarato la propria volontà nel prolungare i contratti. Le prime proroghe, quelle fino al 2015, sarebbero possibili grazie all’accantonamento di alcuni fondi che avanzano dal censimento 2011.
Per quanto riguarda le risorse da destinarsi per i rinnovi quinquennali, è in atto all’Istat il passaggio dal censimento decennale a quello permanente. Niente più rilevazioni totali porta a porta, bensì rilevazioni campionarie continue e utilizzo dei dati amministrativi presenti nelle anagrafe comunali. “Il cambiamento presenta moltissime novità dal punto di vista metodologico e porterà ad un forte risparmio per le casse dello Stato”, affermano Angelita e Valeria. “Siamo in attesa del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che autorizzi il censimento permanente. I soldi attuali servono per le attività sperimentali del censimento, il quale dovrà poi essere messo a regime”.
A breve il Consiglio dei ministri dovrebbe dare il via alla modifica. La conseguente erogazione dei fondi potrebbe allora garantire quantomeno la formale fattibilità della proroga quinquennale, sebbene i precari della ricerca dell’istituto puntino alla trasformazione del loro contratto in uno a tempo indeterminato. —
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L’intervista a Paolo Weber, direttore generale reggente dell’Istituto nazionale di Statistica