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Altre Economie / Reportage

Dai tetti alla terra: prove di resistenza alimentare in Venezuela

I ragazzi della Misión Robert Serra al lavoro nell’orto urbano Bolívar I a Caracas - © Marinella Correggia

Sistemi di distribuzione di cibo a prezzi sussidiati, scambi di semi, cooperative agricole, gruppi di acquisto. I tentativi di indipendenza produttiva sono in corso, nonostante il tracollo economico e la crisi degli investimenti

Tratto da Altreconomia 216 — Giugno 2019

L’impegno volontario di Elia Olivares per la sicurezza alimentare a Caracas oscilla fra la terrazza condominiale semicoperta al ventesimo piano e lo spazioso ingresso del grattacielo Mohedano, dove questa insegnante vive con la madre Isidora di 95 anni. Lassù coltiva il techo (tetto) verde, insieme al medico Rafael Rojas. Insalate, zucche, erba cipollina, mais e un alberello di moringa oleifera sbirciano la cabinovia che porta al barrio San Agustín appollaiato sulle colline. A poche decine di metri, le colorate case popolari della Gran Misión Vivienda Venezuela, ideata dall’allora presidente Hugo Chávez nel 2010: negli anni sono stati assegnati oltre due milioni e mezzo di appartamenti, parte del reinvestimento dei proventi petroliferi a beneficio dei ceti poveri, maggioranza un tempo ignorata e vilipesa. L’orto d’altura di Elia e del suo vicino (“Gli altri non si sono appassionati, purtroppo”) fa parte del Programma Siembra Caracas, promosso fra gli altri dal ministero dell’agricoltura urbana. Produrre ortofrutta su tetti e balconi, negli spazi verdi e nella periferia cittadina è un segno dei tempi, una reazione alla crisi acuita dal blocco economico e finanziario voluto dagli Stati uniti, ma con ripercussioni extraterritoriali. Eppure, il 30 aprile, mentre il leader dell’opposizione Juan Guaidó, sostenuto anche da Washington, incitava i militari del Paese a rivoltarsi contro il presidente Nicolás Maduro, a Caracas si regolarmente è svolto il Primo incontro nazionale dei produttori di sementi autoctone.

Elia Olivares nel suo orto sul terrazzo del palazzo Mohedano nel quale vive – © Marinella Correggia

Ma è a pianterreno del palazzo Mohedano che mensilmente Elia declina, stavolta non da sola, un programma di sopravvivenza alimentare nato nel 2016 e chiamato Clap (Comitati locali di approvvigionamento e produzione): è la distribuzione, capillare e organizzata dagli stessi destinatari, di derrate essenziali a prezzo ultra sussidiato per oltre sei milioni di famiglie. Il Venezuela ha 32 milioni di abitanti. Gli scatoloni di cartone pesano 18 chilogrammi e contengono una gamma di prodotti, non sempre gli stessi. Fra questi riso, fagioli neri, lenticchie, latte in polvere, farina di mais precotta per fare il pane nazionale arepa, olio, margarina, zucchero bianco, tonno. La caja Clap è piuttosto apprezzata anche dagli oppositori, numerosi al Mohedano. E da chi non ha la cittadinanza venezuelana ma solo la residenza: “Sì, ne abbiamo diritto anche noi” sorride Ousman, nigeriano abitante del palazzo, dove vivono anche un ungherese-canadese, colombiani e cinesi. Quanto costa una caja, al consumatore finale? “Solo 500 bolivares”, spiega Belquis Wong, mentre con altre donne del Consiglio Clap organizza la distribuzione, fra un caffè e un commento sulla politica. Dunque, tutti quei chilogrammi hanno il prezzo di una sigaretta (ormai le vendono a unità, 500-600 bolivares) e di un lecca lecca, e costano dieci volte meno di un bottiglione di bibite multinazionali, ormai rara avis. Un euro corrisponde ormai a 3.600 bolivares, per via della svalutazione. “Senza il Clap ci avrebbero sconfitti, presi per fame”, dice Elia e dicono in tanti. E non esagerano, visto che la crisi con i suoi elementi endogeni ed esogeni ha abbattuto il potere d’acquisto di gran parte della popolazione, oltre a provocare scarsità di generi di base. Il salario minimo mensile è attualmente di 18.000 bolivares. Equivalenti a circa 5 euro. I venezuelani sono ormai poverissimi quanto a potere d’acquisto internazionale, livello Yemen o Afghanistan. Ma non è solo la caja sussidiata del Clap (anche se certo non basta per tutto il mese) a permettere ai venezuelani di affrontare una vertiginosa iperinflazione: praticamente tutto quello che viene dallo Stato costa pochissimo o è gratuito. Alimenti, farmaci e cure mediche (a parte la penuria dovuta alla difficoltà di importare), scuola, elettricità e acqua, benzina (purtroppo), bus e metrò pubblici sono gratis. Non quelli privati, invece: un solo viaggio urbano può costare 200 bolivares, uno di sei ore verso un’altra città 6.000.

La città di Caracas vista dalle colline circostanti, con i barrios – © Marinella Correggia

Secondo il recentissimo rapporto Economic Sanctions as Collective Punishment: The Case of Venezuela diffuso alla fine di aprile 2019 e redatto dagli economisti statunitensi Jeffrey Sachs e Max Weisbrot (cepr.net), nel Paese latinoamericano sarebbero morte 40mila persone per mancanza di medicine salvavita a causa delle 150 misure coercitive unilaterali adottate da Washington a partire dal 2017, con il pretesto che il Venezuela sarebbe un “pericolo per la sicurezza nazionale statunitense”. Il Clap è un sistema efficace di distribuzione degli alimenti a prezzi sussidiati, accanto ai magazzini statali Mercal e Pedeval. Funzionano anche alcuni gruppi d’acquisto, da cooperative agricole. La rete Cecocesola di Barquisimeto, spiega Rigger Triviño di Alba Tv (un media attento alle realtà socioeconomiche alternative), rifornisce decine di migliaia di famiglie con il sistema “Alpargata solidaria”. Se invece ci si approvvigiona nei negozi privati e sulle bancarelle, i prezzi lievitano, un chilogrammo di farina può costare un terzo del salario minimo ed è anche per questo che tutti fanno diversi lavori informali o, come Damaris, smettono il lavoro statale per improvvisarsi venditori. Ma c’è un gran bisogno di diversificare l’economia. Lo gridano le stesse etichette dei prodotti negli scatoloni Clap: lenticchie e latte sono messicani, l’olio di soia è argentino, lo zucchero spesso brasiliano. Tentativi di indipendenza sono in corso, l’obiettivo dichiarato è produrre in Venezuela tutti gli alimenti Clap. Si sforzano di farlo alcune delle comunas, le realtà territoriali organizzate, unità politica di base, che dovrebbero essere anche produttive. Alcune lo sono davvero: ad esempio la Panal, nel quartiere 23 enero a Caracas, impacchetta lo zucchero (purtroppo bianco) e lo rivende ad altre comunas; e la José Pio Tamayo, nello Stato di Lara, produce farina di masi precotta, la materia prima per la focaccia arepa, consumo quotidiano.

C’è bisogno di diversificare l’economia. Negli scatoloni Clap lenticchie e latte sono messicani, l’olio di soia è argentino, lo zucchero spesso brasiliano

L’agroecologo Miguel-Angel Nunez da tempo lavora per l’agricoltura contadina in un Paese ricco di terre incolte: “Nell’ultimo decennio, a causa della crisi, gli investimenti in agricoltura si sono quasi azzerati, ma i rendimenti sono scesi di poco, grazie ai produttori su piccola scala che non richiedono molte risorse”. L’anno scorso, nella Marcha campesina admirable, centinaia di contadini hanno percorso 400 chilometri fino a Caracas per chiedere più attenzione e più terre pubbliche. “Per resistere, il Paese deve produrre”, era il loro slogan. E i consumi? La comida chatarra (cibo spazzatura), prodotta e distribuita dai privati, ha prezzi alti, più in proporzione dell’ortofrutta. In giro si vedono ancora diverse persone sovrappeso, “ma l’obesità è diminuita”, annuisce la nutrizionista Greselida, e poi, siccome la carne costa anche perché il settore privato domina e specula, “c’è ora una maggior tendenza a preparare cibi vegetali. Vanno moltissimo ormai le polpette stile falafel con le lenticchie del Clap, e gli hamburger vegetariani con la farina di yucca che è locale. Oltretutto con i frequenti apagones (black-out) la carne imputridisce”. Inoltre, “c’era l’abitudine di comprare nei porti, cioè si importava tutto. Mangiavamo mele, con tutti i frutti tropicali deliziosi che abbiamo qui”. E’ d’accordo Ajanì: “Prima non si faceva attenzione. Carne alla brace e fiumi di birra”. Mamma di Diego, vive in un’ordinata casa di latta e legno, nell’insediamento del progetto sociale Ana Soto di Barquisimeto (cento famiglie che aspettano di costruirsi ecodimore di terra cruda). Conferma Edmyr Navarro dell’Istituto nazionale per la nutrizione: “La nostra sfida in questa contingenza è ispirare diete sane e garantire il diritto al cibo, e al tempo stesso avviarci verso un modello alimentare più indipendente recuperando la cosmovisione dei nostri popoli indigeni, come mia nonna che era wayù. Certo, nelle guerre anche economiche come quella in corso, morti e feriti ci sono e quindi attuiamo il Piano di attenzione diretta alla vulnerabilità nutrizionale di bambini, anziani e ammalati, a livello comunitario. E promuoviamo l’allattamento materno. Quanto agli adulti, nei quartieri si susseguono incontri di formazione e scambio, su come usare al meglio il Clap, come scegliere ortofrutta stagionale, come sostituire il burro con la zucca o l’avocado, la farina di grano, che ci avevano imposto, con la yucca o la farina di platano”.

Gli orticoltori dell’orto comunitario Ezequiel Zamora – © Marinella Correggia

Edmir sfoglia un libro illustrato da bambini; una delle storie contrappone Capitan Vitamina che a forza di frutta sconfigge il mostro hamburger e patatine. Quel libro è di qualche anno fa. Ormai se ne stampano pochi, sono una costosa rarità carta e inchiostro, dipendenti da materie prime importate. Niente più sprechi di fotocopie. Né di carta igienica; del resto purché ci siano un po’ di acqua e sapone, mezzo mondo ne fa a meno. Resistono i libri usati: il giacimento del già esistente. E le riparazioni: “Ecco, laggiù c’è il laboratorio dove aggiustano i computer Canaima che il governo regala alle scuole”, indica un venditore di caffè al centro di Caracas. Poco lontano, due avvisi: “Compro lampadine a risparmio energetico”, e “si riparano lampadine”. E ancora l’autoproduzione: Angel, elettricista, spiega che come si fa il deodorante a base di bicarbonato. Altri segnali di indipendenza che aiutano a resistere: le borracce al posto dell’acqua imbottigliata; le cure semplici con le erbe; i pannolini lavabili sono diventati la norma, qualche comuna ha messo su laboratori apposta. Si torna allo zucchero artigianale scuro detto papelon, più economico di quello raffinato, quando quello del Clap non basta. Molto rimane da fare. Tuttora passeggiano miriadi di bustine di plastica gratuite, subito lacere. Malgrado gli orti urbani, pochi fanno il compost, in compenso la spazzatura, pur indifferenziata, si è ridotta di quasi la metà. E in città, ancora pochissimi si spostano in bici. Tre ragazzi in metrò (gratuita), a domanda rispondono: “Chissà se, superata la crisi, si tornerà al banale consumismo a buon mercato di prima”.

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