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Esteri / Reportage

Il vento Oromo che spinge l’Etiopia verso la democrazia

Nella città di Kofale, West Arsi, le piogge bloccano le strade in terra battuta - © Franco Zambon

Nello Stato con la crescita più sostenuta dell’Africa, la nomina di Abiy Ahmed, esponente della minoranza Oromo, a primo ministro fa sperare in un domani più disteso, dopo anni di proteste. Ma le disuguaglianze aumentano

Tratto da Altreconomia 205 — Giugno 2018

Shashamane. Alle 6.30 del mattino il cantiere di Tullu Dimptu prende vita. A dieci chilometri dal centro di Addis Abeba siamo già in Oromia. Lontano dal traffico della capitale, gli scheletri di città-dormitori in costruzione sovrastano le piantagioni di teff. Mezz’ora più tardi e 150 chilometri più a Sud, nella località di Zuai, un fiume di donne raggiunge le serre dell’olandese Sheer. Scivolano fuori da case sovraffollate e senza servizi, e lentamente entrano nelle coltivazioni di rose, spinte da una misera paga. Alle nove di mattina, ai piedi della riserva di Senkele, le baracche di lamiera dei rifugiati oromo brillano al sole, mentre i residenti raggiungono le enormi coltivazioni ai lati della statale 8, che collega Shashamane ad Awasa.

Lentamente in Etiopia si torna a respirare. Dopo tre anni di proteste, le barricate sulle strade che connettono Addis Abeba al resto del Paese sono state rimosse. La nomina di Abiy Ahmed a primo ministro della Repubblica federale ha fatto nascere un vento nuovo, che percorre tutta l’Oromia, il primo Stato ad aver cercato un cambiamento e ad aver combattuto il governo centrale. Dall’Arsi fino a Bale, passando per Guggi e Borana, i luoghi simbolo delle manifestazioni oggi lasciano spazio alla festa. L’incarico al nuovo primo ministro, originario dell’Oromia, ha spezzato quella che era sentita dall’etnia come una colonizzazione lunga centinaia di anni: prima con gli imperatori Amhara, poi con il governo comunista del Derg. La storia recente ha ripercorso questi stessi passi. Dal 1991, con la fondazione della Repubblica democratica federale, la bilancia delle decisioni economiche e politiche prese dalla coalizione del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (FDRPE) -rappresentante tutti i movimenti di liberazione del Paese-, ha pesato considerevolmente verso il Fronte popolare di liberazione del Tigrè (TPLF), etnia minoritaria del Nord del Paese. “Non è stata solo una battaglia per l’Oromia, ma per tutte le Etiopie”, dichiara Mesti, attivista di 28 anni originario di Shashamane, mentre passeggia nella rigogliosa campagna del West Arsi.

Anche Obboo Fenisa Gemeda, presidente del Forum delle religioni del West Arsi, è d’accordo: “Il 2 aprile è il giorno in cui ufficialmente il potere ha preso atto della forza della base”, afferma speranzoso. “Oggi ricominciamo a guardare al futuro”, continua il rappresentante Oromo, mentre la macchina costeggia le serre di rose. “Siamo felici, la nomina di Abiy Ahmed è una nostra vittoria”. Una vittoria pagata con il sangue.

L’alba sorge sull’immenso cantiere di Tullu Dimptu, 10 chilometri da Addis Abeba - © Franco Zambon
L’alba sorge sull’immenso cantiere di Tullu Dimptu, 10 chilometri da Addis Abeba – © Franco Zambon

Dal dicembre 2015 a oggi il numero di morti ha superato il migliaio, mentre le prigioni del Paese -nonostante l’amnistia concessa dall’ex primo ministro Desaleign a gennaio- continuano a essere piene di prigionieri politici: erano 10mila prima del decreto di scarcerazione, oggi sono circa 6mila. Intanto, Addis Abeba continua a procedere verso una distensione nei rapporti con le diramazioni federali. In questo senso, l’11 e 12 maggio scorsi una delegazione del governo etiope ha incontrato all’estero i rappresentanti del Fronte democratico Oromo in esilio, per discutere le riforme necessarie per avviare un reale processo di democraticizzazione del Paese. Se, da una parte, i passi fatti del governo sembrano aver sgonfiato le ragioni politiche della protesta, restano ancora salde le radici economiche che hanno alimentato manifestazioni e agitazioni.

“Questa è una lotta tra ricchi che hanno e poveri che non hanno -continua Obboo Fenisa-. Oggi abbiamo raggiunto uno scalino, ma il processo sarà ancora lungo”. Il rappresentante Oromo non perde la fiducia, ma conosce perfettamente i mali endemici e contraddittori che affliggono il Paese. L’Etiopia cresce a un ritmo da locomotiva d’Africa. Secondo il Fondo monetario internazionale, il Pil della Repubblica federale democratica crescerà dell’8,5% nel 2018. Un risultato che, se confermato, trasformerebbe l’Etiopia nel Paese con la crescita più sostenuta di tutto il continente, davanti a Costa d’Avorio e Senegal.

La compagnia aerea di bandiera, l’Ethiopian Airways è il maggiore vettore africano, con 100 tratte internazionali verso Asia, Americhe, Europa e Medio Oriente, e 21 destinazioni nazionali. L’aeroporto internazionale di Bole ad Addis Abeba, oltre a essere diventato uno degli hub più importanti del continente, è in espansione. Il progetto di allargamento è stato avviato dopo il prestito di 250 milioni di dollari della Export-Import Bank of China, la stessa banca che ha finanziato parte dei 3,5 miliardi di dollari per la ferrovia tra la capitale etiope e il Gibuti. Pechino si è così aggiudicata due importanti tasselli nei trasporti non solo dell’Etiopia, ma di tutta l’Africa.

“Ma per chi è questa crescita?”. Obboo Fenisa si chiede a chi giovino questi numeri. “La nostra gente soffre la fame, mentre ad Addis Abeba la speculazione edilizia cavalca. È vero, le aziende straniere investono nel Paese, ma le condizioni dei lavoratori non sono migliorate in modo significativo”. In generale -secondo i numeri del 2015 dell’Agenzia statistica nazionale- il tasso di disoccupazione si attesta al 16,8%, il 30% della popolazione si trova al di sotto della linea della povertà e -dice la Banca Mondiale- nel 2016 il reddito medio annuo adeguato al potere d’acquisto era di soli 1.608 dollari all’anno. L’indice Gini sulla disuguaglianza -pur restando comunque abbastanza basso (39,1 nel 2015), sinonimo di una certa omogeneità nel Paese- ha registrato dal 2010 un incremento di sei punti. E secondo gli esperti, l’esplosione del Pil potrebbe far crescere ancora la forbice nella distribuzione delle risorse. In Etiopia inoltre restano problemi fondamentali: per esempio, la limitata libertà di stampa -150esimo posto al mondo- e la corruzione, 107esimo posto tra i Paesi meno afflitti da questo male.

8,5%, la crescita del Pil dell’Etiopia prevista nel 2018, secondo le stime del Fondo monetario internazionale

Nei gangli del sistema della Repubblica federale emergono i motivi delle proteste in Oromia, una delle aree più colpite da questa crescita senza ritorno. “La Sheer è l’esempio perfetto per capire come funzionano le cose nel Paese”, afferma Chala, un’attivista oromo in prima linea durante le manifestazioni. “L’azienda olandese viene nella nostra terra che appartiene -non si sa per quale ragione- a famiglie tigrine. Costruisce, impiega personale pagato miseramente e non paga tasse. Ma questo è un sistema generalizzato”.

Il cantiere del nuovo stadio di Addis Abeba, costruito dalla cinese CSCEC - © Franco Zambon
Il cantiere del nuovo stadio di Addis Abeba, costruito dalla cinese CSCEC – © Franco Zambon

A Zuai -in piena Rift valley, una delle aree più fertili del Paese- le serre della Sheer hanno mangiato centinaia di ettari, mentre l’economia del lago, da cui dipendono migliaia di persone, è ormai distrutta dagli scarichi senza filtri dell’azienda. “Come se non bastasse, le donne e gli uomini che lavorano nelle piantagioni di rose sono esposti quotidianamente e senza protezioni agli agenti chimici usati sui fiori -continua Chala-. Le donne hanno cominciato a soffrire di malattie croniche, mentre i bambini nascono con malformazioni”. Il sistema delle rose è stato svelato da un’inchiesta realizzata dalla testata olandese Zembla, ma in Etiopia tutti già conoscevano la situazione. “Impiegati salariati a 30 dollari al mese, case sovraffollate, rischi per la salute e per l’ambiente: non sono novità, succedono continuamente”, commenta Chala.

A pochi chilometri da Addis Abeba c’è l’area di Tulle Dimptu, un altro esempio dell’Etiopia a due velocità. Qui stanno prendendo vita immense città satellite attorno alle fabbriche chimiche e farmaceutiche cinesi e poco lontano da un nuovo polo industriale made in China. In Etiopia ci sono già quattro di questi poli ed entro il 2020 si prevede di costruirne altri otto. “Questo era un progetto dedicato alle fasce più deboli, insomma per gente del luogo”, continua Obboo Fenisa, mentre indica dal finestrino dell’auto gli immensi appartamenti che dominano l’area. “Ma, come è successo per le parti già edificate qui vicino, la proprietà verrà spartita al 90% tra famiglie tigrine”.

Anche i campi profughi oromo vicino ad Awasa, nati dopo il conflitto con i somali, raccontano i motivi di una rabbia che bolle sotto alle decisioni politiche e che è difficile da contenere. “Ci siamo presi cura dei nostri fratelli -continua Obboo-. Non abbiamo accettato aiuti dal governo centrale: sono stati gli stessi oromo a tassarsi e a tendere una mano ai rifugiati”.

Molti degli abitanti dei campi profughi adesso sono impiegati nelle enormi coltivazioni di proprietà dei tigrini che si affacciano alla statale 8, mentre altri lavorano nell’immenso parco industriale di Awasa, altro simbolo della penetrazione cinese nel Paese. Un’influenza, quella di Pechino, che è fatta di finanziamenti. Dal 2010 al 2015 l’Etiopia ha ottenuto, secondo le stime del gruppo di ricerca China-Africa della Johns Hopkins University, 10,7 miliardi di dollari di prestiti. Un flusso di denaro che ha finanziato per la maggior parte aziende cinesi che nel Paese costruiscono dighe, strade e reti di telefonia cellulare, sfruttando manodopera a basso costo. Se da una parte la nomina di Abiy Ahmed ha calmato le acque, i problemi endemici del Paese restano ancora vivi. Gli oromo -guardiani di un tacito e informale accordo con il governo centrale- sono il fulcro dell’Etiopia e di questo armistizio. Oltre a trovarsi in una posizione geografica strategica, al centro del Paese, ed essere 40 milioni di persone (su 100 milioni di etiopi), questo ruolo è anche una conseguenza dalla loro struttura sociale e giuridica tradizionale, che li rende compatti e allo stesso tempo inclusivi.

Il gadaa -il tradizionale sistema di classi sociali oromo- tiene unite le famiglie, guidate al vertice dagli abbagadaa, i rappresentanti maschili, e dalle atete, le rappresentanti femminili. Si tratta di una struttura verticale e orizzontale nello stesso tempo. Il consiglio degli abbagadaa si riunisce ogni tre mesi, ma ogni territorio ha i suoi rappresentanti, che sono i gestori della legge. La rotazione al vertice è ogni otto anni. “In Etiopia sta avvenendo un cambiamento importante, che non ha a che vedere soltanto con la politica o l’economia, ma è di tipo culturale -conclude Chala-. Gli oromo, infatti, stanno ribaltando l’equilibrio del Paese, che finora era guidato dai amhara e tigrini, popoli semiti che si relazionano con il nord Africa. Noi invece siamo di tradizione cuscita, legati da relazioni etniche con il Kenya, la Tanzania e l’Uganda”.

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