Economia / Reportage
La nuova economia dall’altra parte del mondo
Così produttori e consumatori stanno trasformando l’Oceania. A Brisbane, in Australia, è nata la rete “NENA”, un’alleanza per promuovere consumo critico e filiera equa
Robert Pekin ha prodotto formaggi fino al 1990. Poi è stato sfrattato e costretto a lasciare il suo stabilimento. Non si è rassegnato e nel 2005 ha fondato l’impresa sociale “Food Connect Brisbane” (www.foodconnect.com.au). Da allora si batte per un sistema di produzione del cibo più equo. Un pezzo importante dell’”altreconomia” dall’altra parte del mondo: l’Oceania. Lo incontriamo a Brisbane, nello Stato australiano del Queensland, nella sede principale di Food Connect. Un capannone dove ogni giorno arrivano i prodotti di 80 agricoltori e che qui vengono ripartiti in cassette miste o su ordinazione e poi distribuiti attraverso 70 punti di raccolta in città e dintorni, 41 gruppi di acquisto solidale (Gas), varie comunità a sostegno dell’agricoltura (CSA), ristoranti e piccoli empori.
Nello spazio coordinato da Robert e sua moglie, Emma Kate, trovano ospitalità sei microimprese: un catering di cucina indigena, un forno tedesco, un produttore di marmellate, uno di miso di soia, una birreria artigianale comunitaria, una cucina condivisa. Robert racconta la sua storia durante la cena conclusiva della Conferenza “Building a New Economy for Australia”, che si è tenuta proprio a Brisbane e dove si sono dati appuntamento centinaia di attivisti e imprenditori sociali che stanno costruendo un’altra economia (e società) nel continente più remoto, per noi, del Pianeta. “Coinvolgiamo eticamente e in modo trasparente gli agricoltori locali per la fornitura di cibo ecologico, stagionale e super fresco e li paghiamo circa quattro volte il prezzo della grande distribuzione -racconta Pekin-. I loro prodotti sono consegnati in tutta la regione di Brisbane attraverso la comunità dei consumatori, Friends of Food Connect (FFC), che organizzano eventi, feste, promozione, passaparola. Gli agricoltori, dal canto loro, sono riuniti del Family Farmers United Network (FFUN) che fa parte della rete internazionale La Via Campesina”.
Gli aborigeni, circa 650mila su 24,5 milioni di abitanti, cercano di recuperare uno spazio nella “moderna” società australiana, ma sono spesso discriminati e relegati in parti remote del Paese
Robert, Emma e le loro idee sono in ottima compagnia. Alla Conferenza da cui è stata lanciata la rete NENA (New Economy Network Australia) si è parlato di circuiti locali per la sovranità alimentari, alle forme collettive di energie rinnovabili, dall’educazione non convenzionale, alle forme di imprese cooperative, dall’economia indigena alle valute comunitarie, dal ruolo della tecnologia e gestione dei dati, ai blockchain e bitcoin. Quasi quattrocento persone provenienti da tutto il continente, più un ospite “europeo” -il sottoscritto- si sono affollati nelle sale della New Queensland University a discutere e confrontarsi sulla “nuova economia” che vorremmo.
Sono emersi tanti movimenti che in giro per il mondo ruotano intorno all’idea di una nuova economia. Seppure utilizzino nomi ed etichette diversi (economia sociale solidale, economia collaborativa, della condivisione, peer to peer, di comunità, rigenerativa, ecc.), condividono tutti due obiettivi fondamentali: sfidare l’attuale sistema dominante con la sua dipendenza da combustibili fossili, l’estrazione di risorse su larga scala, strutture finanziarie e distribuzione della ricchezza socialmente ingiuste; creare e rafforzare una pluralità di economie, che rispondano ai bisogni delle persone con giustizia sociale, diversità culturale e in maniera ecologicamente sostenibile.
L’Australia è il Paese che forse rappresenta al meglio l’impatto della colonizzazione britannica ed europea dei secoli scorsi, devastante per l’ambiente e per le popolazioni indigene, che si sono ritrovate in pochi anni decimate e private delle risorse fondamentali per vivere. Gli aborigeni di oggi, meno del 3% della popolazione australiana (circa 650mila su 24,5 milioni di abitanti), cercano in qualche modo di recuperare uno spazio nella “moderna” società globale, ma sono spesso discriminati e relegati in parti remote del Paese. Le ferite sono ancora aperte: fino agli anni 70, lo Stato federale poteva rimuovere i figli di famiglie aborigene e porli nelle Missioni della chiesa o in adozione a genitori bianchi, dando luogo alle “generazioni rubate” (stolen generations); tutt’oggi la Costituzione australiana ha articoli che discriminano su base razziale e i diritti di cittadinanza, pur acquisiti dopo un referendum del 1967, sono ancora controversi, con molte campagne e cause in corso sui diritti alla terra. Solo in Nuova Zelanda, fin dal 1840, vi è un vero e proprio Trattato (di Waitangi) tra i Maori e i Pakeha (europei), che riguarda soprattutto la sovranità territoriale. D’altra parte, proprio la Nuova Zelanda è all’avanguardia anche dal punto di vista del riconoscimento dello status legale della natura: lo scorso marzo, il fiume Whanganui è stato riconosciuto dal Parlamento come persona giuridica, dandogli gli stessi diritti di un essere umano e la possibilità di essere difeso, dopo 140 anni di battaglie legali dell’omonima tribù. Certo, i diritti della Terra sono stati introdotti nella costituzione Ecuadoriana nel 2008, seguita dalla Bolivia nel 2010; ma la legge neozelandese con diritti di riparazione (80 milioni di dollari) e per migliorare lo stato di salute del fiume (30 milioni) è certamente un passo avanti, e affida alla tribù Whanganui la “custodia” legale dell’ecosistema fluviale.
Mary Hamilton Graham è docente all’Università di Queensland ed è una delle “anziane” aborigene Kombumerri First Nation. Nei suoi corsi promuove la “visione della Prima Nazione sullo status giuridico della Natura”. Secondo il sistema di pensiero aborigeno, la base del patto sociale è costituita dalla co-decisione tra responsabilità e obbligazione dei “proprietari” e dei “custodi” della terra.
Nel suo intervento, è stata chiarissima nel distinguere tra due concezioni del mondo radicalmente diverse, ovvero un ethos relazionale-reciproco e un sistema legale basato sulla nozione occidentale di diritto (umano). “Gli oltre 200 gruppi aborigeni che hanno co-governato per decine di migliaia di anni queste terre -racconta- si sono sviluppati in bioregioni con integrità territoriale, dove la terra è sacra e non può essere invasa. Il nostro ethos è basato su quattro pilastri: il luogo (sacro), l’etica della reciprocità, l’autonomia, l’equilibrio. Nella nostra cultura tradizionale, il tempo è circolare e non unidirezionale: non c’è ‘progresso’ e non stiamo andando da nessuna parte. Per questo abbiamo bisogno di un’etica di custodia. Nel ‘vecchio’ sistema non c’è un dio, un paradiso o un inferno, un posto oltre la vita. Perciò dobbiamo coltivare relazioni sociali e sentirci parte del posto dove siamo. Possiamo far battaglie e avere nemici, ma sono ‘tradizionali’ nel senso che li conosciamo molto bene”.
“Dobbiamo sfidare la ‘vecchia’ economia, costruita sui combustibili fossili, sull’estrattivismo e sull’idea che la natura sia una ‘risorsa’ illimitata” (Michelle Malloney)
Secondo Mary Graham, è fondamentale che la nozione e pratica indigena dell’obbligazione dell’umanità verso la natura sia integrata nel sistema giuridico occidentale. “Per noi aborigeni, autorità e potere sono separati e non vi è una vera e propria gerarchia, ma una presenza morale, che alcuni rappresentano in una comunità -dice-. La proprietà individuale e l’accaparramento di risorse, l’individualismo e il materialismo, non ci appartengono e sono arrivati con i coloni inglesi. Gli aborigeni nel lungo tempo hanno sviluppato una logica riflessiva e paradossale, non aristotelica, per una relazione stabile tra le comunità umane e tutte le forme viventi autonome, in una hetero-archia orizzontale”. Le fa eco Brian Preston, chief judge del NSW Land and Environment Court. Pur rappresentando il sistema giuridico del Commonwealth che vige in Australia, anche il suo intervento parte da una critica filosofico-storica fondamentale: “La dominazione e subordinazione della natura è alla base della cultura occidentale, utile anche allo sfruttamento operato dai colonizzatori”, afferma Preston.
“Ha vinto la logica che nega le relazioni tra uomo e natura e divide tutto (per esempio anche tra viventi e non viventi, ma sia il terreno sia l’acqua di un fiume sono al tempo stesso sistemi di vita). La cultura protestante ha portato con sé il concetto ‘etico’ di lavoro e il suo derivato, la proprietà intellettuale. Il punto di vista etico forma la legge e l’ordine della società. Per questo la società occidentale distingue tra individui, comunità e Stato e tra questi e l’ambiente (considerato fuori dall’ordine sociale). Non è un caso che l’Australia quando sono arrivati i coloni era considerata terra nullius, di nessuno. E che quindi potesse essere trasformato in proprietà privata in virtù di una legge”. “Lo sviluppo sostenibile -sottolinea Preston- è antropocentrico e considera la natura in maniera strumentale per l’interesse umano invece che nell’interesse delle specie presenti in un ambiente, che sarebbe invece la prospettiva ecocentrica”.
Mallory Maloney, giurista e attivista, è una donna straordinaria, con una grande capacità organizzativa. È grazie soprattutto a lei e alla sua tenacia (e al gruppo di persone che si riunisce attorno alla sua associazione, AELA, Australia’s Earth Law Association) che il movimento per i diritti della Natura sta avendo sempre più sostegno e riconoscimento. Ed è sempre grazie a lei che NENA -la rete per una nuova economia- sta prendendo forma.
Poco prima della Conferenza, mi porta a fare un giro in uno dei parchi di foresta tropicale, patrimonio nazionale protetto, a sud di Brisbane, vicino a Surfer’s Paradise, ridente cittadina sulla costa nord-orientale, meta di surfisti da tutto il mondo, dove si può vedere ancora com’era rigogliosa la natura australiana prima dell’avvento dell’uomo bianco, che già nel 1800 aveva raso al suolo molte delle foreste per far posto a piantagioni di cotone e altre coltivazioni coloniali (peraltro confondendo le stagioni degli antipodi, con risultati spesso disastrosi). Parliamo della sua passione profonda per la Natura e delle battaglie che sta portando avanti da anni, spesso a fianco delle comunità aborigene. E di come è nata l’idea di una “nuova economia”. “La missione di AELA è quello di aumentare la comprensione e la concreta attuazione di una legge, governance ed etica centrate sulla Terra”, spiega Michelle Malloney, “convenor” della Conferenza. “Il nostro lavoro trae ispirazione da grandi pensatori e scrittori, e in particolare da ‘Il grande lavoro: la nostra via per il futuro’, di Thomas Berry. In quel libro, Berry critica l’egocentrismo umano di tutte le strutture di sostegno delle società industrializzate moderne: legge e governo, economia, educazione e religione. Egli suggerisce che ‘il nostro grande lavoro’ è quello di spostare urgentemente i nostri sistemi di governance da società antropocentriche, focalizzate sulla crescita ad ogni costo, a società centrate sulla Terra e tutti i suoi abitanti. Così dall’inizio del nostro lavoro come AELA, eravamo consapevoli che avremmo dovuto sfidare l’attuale ‘vecchia’ economia, costruita sui combustibili fossili, sull’estrattivismo su larga scala e sull’idea che la natura era una ‘risorsa’ illimitata ad uso umano. Per noi la ‘nuova’ economia si basa sulla costruzione di un sistema economico rigenerativo, che serve alle persone e al tempo stesso funzioni in modo sano, entro i limiti ecologici della terra, abbracciando la diversità delle tante forme di economie giuste (comunità, solidarietà, condivisione, dei beni comuni, ecc.).”
“Il nostro sistema giuridico attuale -insiste Michelle- consente agli esseri umani di dominare tutte le altre forme di vita sulla terra. La società industriale considera il mondo vivente come se fosse esclusivamente proprietà umana. Un approccio che ha contribuito alla crisi ecologica che stiamo affrontando oggi. Il movimento per i diritti della Natura -e delle leggi per la natura- mirano a ‘spingere indietro’ il sistema giuridico occidentale, per far valere il diritto del mondo vivente ad esistere, prosperare ed evolversi”.
In Australia sono circa 70 i gruppi di imprese di comunità che producono e commercializzano cooperativamente l’energia per garantire che i profitti siano reinvestiti nelle comunità locali
“La sfida principale è stata trovare il modo giusto per coinvolgere e attirare le persone a formare una nuova Rete. Sono tutti molto impegnati e lavorano sui propri progetti e iniziative ‘uniche’. Vogliamo perciò dare alle persone tempo e spazio per la creazione autonoma di hub e progetti condivisi all’interno di una rete più ampia, che sta crescendo rapidamente”.
Tra coloro che ci hanno creduto fin dall’inizio e che, insieme a Michelle, è stata tra le promotrici del NENA, c’è Amanda Cahill, direttrice del Centro per il cambiamento sociale di Brisbane. Ha fondato il Centro per incoraggiare le persone a reinventare l’economia e sperimentare approcci economici alternativi, per favorire le comunità più resilienti in Asia e nel Pacifico. Si definisce una “connector”. Le chiedo cosa caratterizza la “nuova economia” australiana. “Rispetto ad altre parti del mondo, come Europa, Nord e Sud America -riflette Amanda- il movimento per costruire un’economia socialmente giusta ed ecologicamente sostenibile, che si potrebbe chiamare economia solidale o movimento per una nuova economia, è più recente. Ci sono state molte organizzazioni e individui che per decenni hanno promosso iniziative che stiamo chiamando di ‘nuova economia’, ma che non sono realmente nuove: imprese cooperative, monete alternative e associazioni di mutuo soccorso, tra i molti esempi. Ma è solo adesso che questi diversi attori si stanno unendo in una rete a livello nazionale”. E quali sono, invece, gli aspetti più innovativi? “Probabilmente le più forti aree di innovazione sono nel movimento del ‘fair food’, il cibo equo: dagli orti comunitari e progetti di agricoltura urbana, alle cooperative di investimento etiche per le pratiche agricole rigenerative, alle cooperative e gli ‘hub’ di produttori e consumatori, come Food Connect o l’Open Food Network (openfoodnetwork.org), una piattaforma cooperativa opensource nata a Melbourne, che si sta replicando in molti altri Paesi, dal Regno Unito al Sudafrica”, descrive Amanda.
“Alcuni esperimenti interessanti stanno avvenendo anche nel settore delle energie rinnovabili, con circa 70 gruppi di imprese di comunità in Australia, che cercano modi per produrre e commercializzare cooperativamente l’energia e garantire che i profitti siano reinvestiti nelle comunità locali. Una nuova iniziativa molto promettente è la formazione della prima Alleanza per l’energia rinnovabile dei First Nation, che è stata fondata recentemente da un gruppo di leader aborigeni provenienti da tutto il Paese a sostegno delle comunità indigene, per raccogliere i molti benefici che i progetti cooperativi di energia rinnovabile possono garantire: nuove forme di reddito, occupazione e opportunità di formazione, energia che è effettivamente accessibile nelle parti più remote dell’Australia e, naturalmente, sovranità economica ed energetica”. Un esempio è l’azienda di proprietà indigena AllGrid energy, che ha installato pannelli solari e sistemi di accumulo con batterie per sostituire generatori diesel nelle comunità aborigena di Ngurrara e Kurnturlpara a Barkly, nel territorio settentrionale di Tableland. Nel giro di due mesi dall’installazione, nel maggio 2016, molte persone sono tornate al loro villaggio ormai quasi abbandonato: la comunità è cresciuta da soli due residenti permanenti a circa quaranta.
Amanda sorride. “Passo un sacco di tempo a viaggiare nei piccoli villaggi in tutto il Paese, dove le persone sono completamente affascinate, ispirate ed eccitate da storie di luoghi simili al proprio; dove qualcuno come loro sta sperimentando cooperative di produttori e consumatori, laboratori di maker (fablab), pianificazione urbanistica partecipativa, forme di bilancio partecipativo e tanto altro ancora. Ma quel che è particolarmente emozionante è che spesso troviamo decisori nei governi locali e anche imprenditori che danno il loro sostegno a queste nuove iniziative per aiutarle a partire”. E conclude: “Queste idee risuonano fortemente nelle zone rurali perché i valori che sottendono, come l’interdipendenza, la reciprocità e l’autosufficienza, non sono estranei. Non molto tempo fa gli abitanti dell’Australia rurale dovevano dipendere molto più gli uni dagli altri ed hanno un ricordo vissuto di quelle esperienze. D’altra parte, ha senso. E il ‘buon senso’ è qualcosa a cui gli australiani tengono molto”.
IN DETTAGLIO
Rifugiati senza diritti
La popolazione dell’Australia è in parte discendente di detenuti inglesi e delle colonie britanniche. Nonostante la migrazione forzata e oltre duecento anni di storia e battaglie per vedersi riconoscere come cittadini a tutti gli effetti, è oggi tra i Paesi con le politiche migratorie e soprattutto verso rifugiati e richiedenti asilo più disumane. Dal 2013, quando l’allora governo Abbott decretò “tolleranza zero” verso i “migranti illegali” e lanciò l’Operation Sovereign Borders (operazione confini sovrani), sono migliaia i rifugiati, ai quali Australia legalmente deve la protezione, che vengono respinti in mare e deportati in centri di detenzione in Papua Nuova Guinea, Nauru e altre isole remote del Pacifico, per lunghi periodi in condizioni degradanti e in violazione dei diritti umani fondamentali.
© riproduzione riservata