Cultura e scienza / Opinioni
Il senso storico di Raffaello e la tutela di un passato indifeso
La modernità non può cannibalizzare quel che è stato prima: il significato profondo dell’articolo 9 della nostra Costituzione
Nel 1519 Raffaello (aiutato dal grande letterato e diplomatico Baldassare Castiglione) indirizzò a papa Leone X una lettera che accompagnava i primi risultati della grande campagna di rilievo e disegno delle antichità romane che il pontefice aveva affidato all’artista: è forse questo il primo testo monograficamente dedicato alla conservazione di qualcosa che aveva perso la sua funzione storica e pratica e che ne aveva assunto un’altra, puramente culturale. In questo altissimo testo arriva a compimento un nuovo senso storico, che stigmatizza la cannibalizzazione del passato per costruire il presente: “Quanta calce si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi, che ardirei dire che tutta questa Roma nuova che ora si vede, quanto grande che ella sia, quanto bella, quanto ornata di palagi, chiese e altri edifici che la scopriamo, tutta è fabbricata di calce di marmi antichi!”.
È da questa consapevolezza -alimentata anche dallo strappo della deliberata distruzione della San Pietro costantiniana e dalla costruzione di quella moderna: un’impresa in cui la generazione di Raffaello è responsabile, e per questo è anche lacerata- che sgorga l’esortazione al pontefice per una inversione radicale di quella che oggi chiameremmo politica del patrimonio: “Ma più presto cerchi Vostra Santità, lasciando vivo il paragone degli antichi, agguagliarli e superarli come ben fa con grandi edifici, col nutrire e favorire le virtuti, risvegliare gli ingegni, dar premio alle virtuose fatiche, spargendo il santissimo seme della pace tra li principi cristiani: perché come dalla calamità della guerra nasce la distruzione e ruina di tutte le discipline ed arti, così dalla pace e concordia nasce la felicità a’ popoli e il laudabile ozio, per lo quale ad esse si può dar opera e farci arrivare al colmo dell’eccellenza: dove, per lo divino consiglio, di Vostra Santità, sperano tutti che si abbia da pervenire al secol nostro.
E questo è lo essere veramente pastore clementissimo, anzi padre ottimo di tutto il mondo”. Con questa pagina nasce una modernità che non contrappone il presente al passato, ma che fonda il futuro sulla salvezza del passato: potremmo dire -avendo negli occhi l’affresco virgiliano di Raffaello nelle Stanze vaticane- alla maniera di Enea, che conduce verso il futuro il figlio Ascanio e dunque la propria discendenza, ma si fa letteralmente carico anche del vecchio padre Anchise. Con una lezione ancor oggi poco compresa, Raffaello spiega che i diritti della modernità non sono in contrasto con quelli del passato. Con una meravigliosa metafora, Raffaello si fa supplice e chiede al sommo pontefice la grazia di lasciare in vita il passato: perché il passato, se amato e inteso, è vivo. In tempi tanto più vicini a noi, un protagonista della storia della tutela italiana del Novecento, Giovanni Urbani traduceva e interpretava con felice arbitrio una frase delle Leggi di Platone scrivendo che “il passato è come una divinità che quando è presente tra gli uomini salva tutto ciò che esiste”. Ed è bellissimo e profondo anche il paragone con la missione del pontefice pacificatore dell’orbe cristiano: quel che Raffaello annuncia è la pace del presente con il passato. Ed è proprio questo uno dei significati profondi dell’articolo 9 della nostra Costituzione: uno snodo fondamentale del nostro progetto comune, in cui la Repubblica nascente si fa tutrice di un passato indifeso. Un passato che può essere seme di un futuro diverso da questo ossessivo presente.
Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Da marzo 2017 è presidente di Libertà e Giustizia
© riproduzione riservata