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Economia / Opinioni

Questo non è solo “fisco amico”, è “fisco connivente”

© James Lee - Unsplash

Nel “Decreto bollette” il governo ha infilato una sanatoria di fatto per rilevanti reati fiscali. L’erario “usurpatore” è parte della narrazione di Meloni, così come il paradigma di una crescita economica indotta dall’abbattimento delle imposte. Un vicolo cieco che porta solo a nuove privatizzazioni. L’analisi di Alessandro Volpi

L’architrave della riforma fiscale concepita nel Disegno di legge delega presentato dal governo Meloni è quella del “fisco amico”, non intrusivo, semplificato, discreto, che trasforma il contributo doveroso alle imposte, espressione del patto di cittadinanza fiscale, e il contenuto dell’articolo 53 della Costituzione, in una sorta di atto di liberalità del contribuente, a cui non bisogna dare troppo fastidio, con buona pace della tenuta del gettito fiscale e della progressività. Ora questa idea si rafforza con il singolare, e sospetto, inserimento nel decreto dedicato alle bollette di una serie di norme che di fatto mutano il fisco da “amico” a “connivente”.

Nel decreto in questione viene infatti introdotta la previsione di cause speciali di non punibilità di alcuni reati tributari (omesso versamento di ritenute dovute o certificate per importo superiore a 150mila euro per annualità, omesso versamento di Iva di importo superiore a 250mila euro per annualitàindebita compensazione di crediti non spettanti superiore a 50mila euro), in particolare quando le relative violazioni sono correttamente definite e le somme dovute sono versate integralmente dal contribuente secondo le modalità previste”. In tal modo viene esplicitamente contemplata una sanatoria nei confronti di rilevanti reati fiscali che apre, peraltro, una strada per interpretazioni ulteriormente estensive della non punibilità persino dell’evasione conclamata, andando ben oltre il tema di quella “per necessità” che, d’altra parte, diventa lo strumento per raccogliere un vasto consenso nelle fasce di contribuenti sottoposti a pendenze tributarie.  

In tale ottica, lo stesso “Decreto bollette” ha provveduto ad allungare i tempi di scadenza della prima rata dei condoni dal 3 marzo al 31 ottobre 2023 mentre, per il ravvedimento speciale sulle dichiarazioni validamente presentate per il periodo d’imposta al 31 dicembre 2021 e precedenti, la prima rata slitta dal 31 marzo al 30 settembre. Gli avvisi di accertamento, di rettifica e di liquidazione e gli atti di recupero non impugnati e ancora impugnabili al primo gennaio, diventati definitivi per mancata impugnazione tra il 2 gennaio ed il 15 febbraio, saranno poi definibili entro 30 giorni dall’entrata in vigore del decreto. Sono definibili anche le controversie pendenti al 31 gennaio 2023 davanti alle corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado con oggetto atti impositivi in cui è parte l’Agenzia delle entrate. 

In termini formali è singolare che misure di questo genere, di chiaro carattere fiscale, siano inserite in un decreto dedicato alle bollette energetiche e che tale inserimento sia giustificato, ancora una volta, con le ragioni dell’urgenza; una soluzione destinata a mettere in difficoltà il presidente della Repubblica e a svuotare ulteriormente le prerogative parlamentari. Ma il dato sostanziale è ancora più rilevante. Il Governo Meloni, in pochissimi mesi, ha dato un segnale chiarissimo per cui il consenso si costruisce sulla totale avversione nei confronti del fisco, considerato il peggior nemico dei cittadini che da tale “cattivo usurpatore” devono essere difesi, utilizzando una narrazione in cui confluiscono il liberismo e il mito dello Stato leggero di matrice anglosassone e la più tradizionale ostilità nei confronti dei gabellieri. Una miscela pericolosa che legittima l’evasione come mezzo di autodifesa contro lo Stato e si affida al paradigma della crescita economica, indotta dall’abbattimento delle imposte, come unico mezzo di sostentamento della spesa pubblica.  

Di fronte a una simile rivoluzione culturale sarebbe indispensabile ribadire due punti centrali. Il primo è individuabile nel fatto che praticamente mai la riduzione del gettito ha partorito entrate per mantenere in piedi uno Stato sociale e anzi il “fisco amico e connivente” si è combinato con l’allargamento del perimetro delle privatizzazioni, nell’ambito di una logica dove anche le “semplificazioni” procedurali, spesso, sono servite a deregolamentare e a cancellare ogni forma di controllo, affidando le funzioni di verifica del corretto esito dei procedimenti ai risultati conseguiti sul mercato. Il secondo è rappresentato dal definitivo abbandono dell’ambizione delle politiche pubbliche, a cominciare dal fisco, a svolgere compiti di contrasto delle disuguaglianze, consegnando al “fai da te” dei singoli individui le soluzioni per affrontare le difficoltà dell’esistenza quotidiana. Il fisco connivente, in questo senso, esprime una dimensione totalmente individualistica ed egoistica della società e rinuncia a qualsiasi prospettiva di comunità pubblica. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento


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