Ambiente / Approfondimento
Processo Miteni per l’inquinamento da Pfas. Tra scienza, coscienza e conflitti d’interesse
Il dibattimento in corso a Vicenza per la devastante contaminazione chimica è un punto privilegiato per osservare e valutare anche il ruolo spesso problematico dei consulenti scientifici dentro e fuori le aule di Tribunale. Un caso di scuola che va dalla minimizzazione degli effetti avversi alla pretesa separazione tra pericolo e rischio. Mentre un’intera comunità segnata nel corpo e nelle speranze attende risposte
A Vicenza si celebra il più importante processo per inquinamento mai svolto in Italia, che riguarda l’inquinamento da Pfas causato primariamente dagli sversamenti effettuati nel corso di decenni dall’industria chimica Rimar/Miteni/Icig.
Vicenza diventa quindi un osservatorio privilegiato per vedere e valutare anche il ruolo dei consulenti scientifici dentro e fuori le aule di Tribunale. Il peso della scienza nelle Corti è da decenni oggetto di attenzione, tanto che alcuni autori ne hanno parlato in termini critici evidenziando strategie processuali deprecabili portate avanti da “mercenari della scienza” che alimentano una “cultura del dubbio” finalizzata a negare nessi causali e associazioni con danni ambientali e sanitari e spesso veicolo per assoluzioni in casi di disastro e crimini ambientali.
Nell’occasione specifica, il professor Paolo Boffetta e il professor Claudio Colosio, consulenti delle società imputate, hanno predisposto un loro “aggiornamento” sulla valutazione del rischio di danni alla salute nelle svariate decine di migliaia di persone colpite dall’inquinamento in parte delle tre province di Verona, Vicenza e Padova.
La loro posizione è stata la sistematica minimizzazione degli effetti avversi derivanti dall’esposizione ai Pfas. Inoltre, il loro intento era quello di dimostrare che la popolazione del Veneto non abbia da temere attraverso una valutazione di impatto ed esposizione. Hanno pertanto depositato le conclusioni di questo “esperimento” in alcune slide tese a illustrare le loro valutazioni, rese in parole semplici, di modo che la Corte e i giurati potessero agevolmente comprendere.
Sulla base degli articoli scientifici che i due periti hanno considerato, del parere dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa, 2020) e dei loro calcoli bere due litri di acqua con 1.173 nanogrammi per litro di Pfoa al giorno “rientra nei limiti protettivi”.
In realtà nella discussione in aula è subito emerso un inghippo: i consulenti non avevano considerato il peso corporeo. I valori fissati da Efsa (4.4 ng/kg di peso corporeo/settimana) sono in realtà 53 volte più bassi per l’adulto di 70 chilogrammi che beve due litri di acqua e 186 volte più bassi per il bambino di 10 chilogrammi che beve un litro d’acqua.
Un errore grossolano in cui sono incorsi due luminari? Di sicuro, nessuno studente di Biologia, di Farmacia o di Medicina potrebbe mai fare un errore del genere a un esame.
Per valutare l’impatto delle affermazioni dei consulenti sulla salute umana, va considerato che i Pfas si accumulano nell’organismo. Bere per diversi anni acqua inquinata con 1.173 nanogrammi per litro di Pfoa porta ad avere in media un valore di circa 140 nanogrammi per millilitro nel proprio siero. Sono dei valori molto alti: circa cento volte più alti di quelli che si trovano nel sangue del resto dei cittadini veneti.
Come si evince dalle magliette da un decennio mostrate dalle “Mamme No Pfas”, sono i preoccupanti valori trovati nel sangue dei figli. Le famiglie dei residenti e dei lavoratori della Dupont nella Mid-Ohio Valley negli Stati Uniti hanno già in passato vissuto un episodio simile ed un altrettanto grave episodio di inquinamento industriale e sono stati oggetto di studi molto rigorosi: per livelli di Pfoa nel siero molto alti (superiori a 110 nanogrammi per millilitro) il rischio di cancro del testicolo è da due a tre volte più elevato.
L’impatto quindi non è assolutamente rassicurante come dipinto dalle difese. Del resto la storia di questo stabilimento chimico insegna come le preoccupazioni di alcuni medici del territorio e della stessa popolazione sono rimaste inascoltate a lungo da parte delle istituzioni locali e degli organi di controllo: già nel 1977 erano stati chiusi gli acquedotti di tre Comuni per l’inquinamento da dinitro-benzotrifluoruri.
Le associazioni che hanno portato alla luce le dimensioni devastanti di questa ulteriore contaminazione chimica da Pfas hanno da più di un decennio alzato la voce, per chiedere adeguati riscontri, dai campionamenti delle matrici ambientali a seri programmi di biomonitoraggio; da misure di prevenzione e precauzione all’inibizione e controllo di attività pericolose. Una pressione bottom-up, si direbbe, che ha fatto da traino e pungolo all’attivazione delle competenti autorità.
Nel 2023, mettendo insieme le evidenze degli studi sull’uomo, sull’animale e quelle di laboratorio, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha classificato Pfoa come cancerogeno per l’uomo per le sedi del rene e del testicolo. E non a caso, la stessa Iarc ha acceso un faro sull’eccesso di casi di tumore del testicolo riscontrato in alcuni Comuni della zona rossa, a partire da una segnalazione del Sistema epidemiologico regionale, che già nel 2016 aveva registrato un aumento dei casi di tumore del testicolo nel Comune di Lonigo (16 casi osservati contro 8.7 casi attesi), dati che mal si conciliano con l’affermazione dei consulenti che l’acqua con 1.173 ng/l di Pfoa è in ogni caso “nei limiti protettivi”.
È dunque possibile che i due consulenti con il loro “grossolano errore” volessero dimostrare proprio il fatto che è impossibile che si sia verificato un danno alla salute della popolazione? Non solo è possibile, ma alcuni indizi appaiono significativamente orientati.
Basti leggere quello che hanno detto nella loro perizia: “La classificazione della Iarc riguarda il pericolo, non il rischio”. Dunque, secondo i consulenti, non vi sarebbe nessun aumento di rischio di tumore in chi è stato esposto, anche ad alte dosi. Si tratta di una mistificazione terminologica che si basa su una pretesa separazione tra il pericolo (che è solo teorico) e il rischio, cioè la misurazione dell’aumento dei casi di tumore in gruppi e in popolazioni di persone esposte a sostanze riconosciute formalmente come cancerogene per l’uomo.
D’altro canto il professor Boffetta è noto a livello internazionale non solo per il suo prestigioso curriculum (1.604 ricerche pubblicate su riviste internazionali) ma anche per i suoi conflitti d’interesse: collabora da anni con le companies internazionali e ha sempre concluso che numerose evidenze di cancerogenesi nell’uomo sono limitate e confuse da errori e da limiti informativi per la diossina, il berillo, l’arsenico, gli scarichi dei motori diesel e perfino l’amianto. Idem naturalmente per il Pfoa.
È stato oggetto di forti e ben documentate critiche su giornali prestigiosi come Le Monde o la Repubblica, su riviste scientifiche del settore come Environmental Health o Epidemiologia & Prevenzione. È anche stato costretto in più occasioni a rettificare o puntualizzare le sue dichiarazioni di indipendenza scientifica, come da ultimo nel 2023 proprio per la sua posizione di parte nel processo Miteni.
Al di là dello specifico episodio, situazioni come questa ci invitano a una più approfondita valutazione delle questioni relative ai conflitti di interesse e all’indipendenza del mondo scientifico.
Fare i consulenti per l’industria è un lavoro legittimo. Ma di fronte a questa vicenda sorge spontanea qualche domanda, che considera ragioni di opportunità, di correttezza deontologica e di rigore professionale e impone la necessità di una rilettura dei conflitti di interesse e degli impatti che possono avere sulla stessa giustizia. Appare altamente improprio il comportamento di studiosi che pubblicano articoli affermando di aver ricevuto finanziamenti da associazioni per la lotta al cancro per poi essere costretti a smentire pubblicamente o non rivelano incarichi in essere correlati all’oggetto dei loro articoli, fatti che ne condizionerebbero, almeno per il lettore, l’attenzione e il senso critico.
Il ruolo di periti e consulenti, all’interno di un processo, risponde alla funzione di definire al meglio i termini della questione, delineando il quadro -anche scientifico- e rappresentando compiutamente il contesto di riferimento. Questo passaggio è fondamentale: ricostruire i fatti è indispensabile proprio per accertare la verità processuale e chiarire le responsabilità penali.
Le perizie e le tesi presentate durante la fase istruttoria non sono liberamente assunte dal giudice ma, come la “sentenza Cozzini” della Cassazione penale nel 2010 ha precisato, patiscono alcune condizioni, legate a valutazioni di attendibilità, sia oggettiva sia soggettiva. Si tratta, semplificando, di una sorta di catalogo non tassativo ad uso dei giudici da leggersi come criteri guida finalizzati a inquadrare (e circoscrivere) il peso specifico degli scienziati nel processo, sovente richiamato e utilizzato in giurisprudenza.
In estrema sintesi, le valutazioni scientifiche introdotte in dibattimento vanno vagliate in base agli studi che le sorreggono, alla loro oggettività e rigorosità, al grado di accettazione che tali teorie ricevono nella comunità scientifica, agli interessi eventualmente presenti rispetto i committenti.
Ma le affermazioni dei periti e consulenti di parte richiedono al giudice un penetrante ruolo critico anche rispetto ai soggetti che presentano conclusioni scientifiche. Così, nel caso del consulente Boffetta al processo Miteni tanto quanto per il suo collega Colosio -come sia ben chiaro per ogni perito- per tornare all’oggi, il giudice è chiamato a valutarne l’indipendenza e l’integrità delle intenzioni.
Il giudice è presidio di una delle tre funzioni dello Stato di diritto, il che comporta non solo l’obbligo di far rispettare le leggi ma altresì quello di garantire la giustizia mediante interpretazioni adeguate allo spirito delle leggi: bisogna dare risposte a una collettività contaminata nel corpo, nelle acque, nel terreno, nella mente e anche nella speranza, vista l’ipoteca sul futuro posta dalla persistenza di questi “forever chemicals”.
Analizzando inoltre la questione sotto l’ottica del rigore scientifico: che credibilità professionale può riconoscersi a scienziati che negano sistematicamente conclusioni condivise da gran parte della comunità scientifica per avvalorare le tesi difensive dei committenti, ovvero le industrie chimiche nel caso di specie?
Emerge infine un ulteriore aspetto di riflessione: spesso i periti di parte sono anche docenti universitari. E questa qualifica porta con sé un carico di responsabilità non solo didattica ma anche simbolica. Essere docenti implica anche costituire un modello di riferimento, non solamente didattico. È quindi una questione etica che non va sottaciuta ma anche una questione accademica di non poco conto.
Mario Saugo è membro della Commissione ambiente e salute dell’Ordine dei medici di Vicenza. Claudia Marcolungo è docente universitaria di Diritto dell’ambiente
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