Finanza / Opinioni
Pezzi di società pubbliche ai fondi. La conquista, in silenzio, continua. Il caso Kkr
I tagli allo Stato sociale portano cittadine e cittadini a divenire “clienti” dei fondi che macinano profitti, con i quali poi smontano altri pezzi delle proprietà pubbliche. L’ultimo episodio tocca Eni, che ha ceduto il 25% di Enilive al fondo Kkr (che ha già il 60% di Tim). Il tutto mentre una narrazione tossica vuole la bolla finanziaria “indifferente” rispetto alla realtà. Non è proprio così, osserva Alessandro Volpi
Eni ha ceduto il 25% di Enilive al super fondo Kkr, che dopo aver acquisito il 60% della nuova Tim, arriva ora a entrare nelle attività di Eni per la trasformazione della mobilità che conta oltre cinquemila stazioni di servizio (anche per veicoli elettrici, a idrogeno, metano e biofuel) in diversi Paesi europei, tra cui Italia, Austria, Svizzera, Francia e Germania. L’operazione fa pensare molto. Il principale azionista privato di Eni, dopo lo Stato italiano, è BlackRock, che è anche, insieme a Vanguard e State Street, il principale azionista di Kkr.
È molto probabile, dunque, che la spinta a vendere Enilive da parte di Eni venga dal maggiore azionista che è anche il maggiore di Kkr. Questo fondo è stato creato da Henry R. Kravis, George R. Roberts e da Jerome Kohlberg, Jr., simpaticamente definiti “avvoltoi”; dispone di 624 miliardi di dollari di attivi e realizza, con i risparmi collettivi, 1,2 miliardi di dollari di profitti ogni tre mesi, in gran parte provenienti dalle commissioni sugli asset. In Italia è presente dal 2005, ma negli ultimi due anni ha conosciuto una vera e propria esplosione, tra Tim, Enilive e vari altri affari, raggiungendo partecipazioni per circa 35 miliardi di dollari.
Stiamo vivendo, in maniera evidente, una fase in cui i tagli allo Stato sociale obbligano i cittadini e le cittadine a divenire “clienti” dei fondi che macinano profitti con cui smontano altri pezzi delle proprietà pubbliche in una catena senza fine. Su un piano più generale, questo processo è corroborato da una narrazione assai tossica costituita dall’apparente indifferenza della colossale bolla finanziaria in corso rispetto ai fatti reali.
Nvidia ha raggiunto un nuovo record; in poco meno di un mese le sue azioni sono cresciute del 14%, nell’ambito di un’annata in cui l’impennata è stata del 180%. Ma come è possibile, verrebbe da chiedersi, dal momento che proprio in questi giorni il clima tra Cina e Taiwan è tesissimo e che Nvidia non ha fabbriche proprie ma si appoggia quasi esclusivamente su Taiwan semiconductor manifacturing che produce proprio in quell’isola? La società americana ha infatti solo 29mila dipendenti a Santa Clara e lega tutta la sua catena del valore a realtà esterne, che fanno capo, in larga misura, a Taiwan. Eppure il titolo corre e la capitalizzazione complessiva ha superato i 3.400 miliardi di dollari. Del resto Microsoft, nonostante le tensioni dure con il governo statunitense, ha una capitalizzazione di 3.300 miliardi di dollari.
Tutto ciò significa, allora, che la finanza non ha rapporti con la realtà? Tutt’altro. La forza di Nvidia come di Microsoft deriva dal fatto che i loro azionisti di riferimento, le Big three (ossia i fondi finanziari BalckRock, Vanguard e State Street), sono certamente favoriti, nel complesso delle loro infinite partecipazioni, dal clima di grande tensione internazionale che genera inflazione, alti tassi, rendimenti di molti titoli in ascesa, dall’energia alle armi. In una simile prospettiva, Nvidia e Microsoft sanno di poter contare su una liquidità enorme, data anche la crescita del risparmio gestito nelle mani dei super fondi, facilitata dalla già accennata contrazione della spesa pubblica nei servizi essenziali a cui contribuisce l’alto costo dell’indebitamento. Il capitalismo finanziario sfrutta le tensioni geopolitiche per rendere le proprie “creature” apparentemente imbattibili. E quella cosa che non può essere più chiamata mercato ci crede. Alla narrazione si aggiunge, poi, lo stigma verso ogni alternativa.
Dal vertice di Kazan dei Brics esce, rafforzata, l’idea di un sistema di pagamento alternativo al sistema Swift, quello oggi largamente prevalente. Si tratta di una soluzione ancora fragile che dovrebbe legarsi alla de-dollarizzazione; un processo assai complesso fino a quando i grandi player come la Cina avranno una bilancia commerciale decisamente attiva nei confronti degli Stati Uniti. Tuttavia, vale la pena concentrare l’attenzione su chi siano i “proprietari” di Swift. I due principali soci sono Euroclear e Clearstream; il primo ha sede legale in Belgio ed è un’emanazione di Jp Morgan -quindi delle Big three- la seconda è partecipata da una serie di grandi fondi, a cominciare da Vanguard, e ha sede in Lussemburgo. Forse, i membri dei Brics non sbagliano a creare un sistema alternativo a uno che si regge su paradisi fiscali e fondi. Inoltre, la riforma del mercato unico dei capitali, auspicata da Mario Draghi, potrebbe modificare anche la proprietà di Swift, rendendola ancora di più una realtà totalmente nelle mani di un grande soggetto finanziario. Ma il vero pericolo sono i Brics.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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