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Perseguire Julian Assange è il segno di una crisi profonda
L’Alta Corte di Londra ha dato il via libera all’estradizione. Sulla tutela dei diritti, prevale il peso della diplomazia con gli Stati Uniti. La rubrica di Enrico Zucca
La legge inglese vieta l’estradizione qualora per le condizioni personali del soggetto sia oppressive, cioè lo esponga a un disagio insopportabile. Analogamente, l’art. 3 della Cedu la vieta in caso di rischio di sottoposizione a tortura o maltrattamenti. Un giudice inglese ha così respinto la richiesta degli Usa di estradare Julian Assange -accusato di gravissimi reati per aver diffuso documenti riservati sulla guerra in Iraq e Afghanistan- ritenendolo a rischio di suicidio se sottoposto a un duro regime carcerario. In appello l’Alta Corte, con il Lord Chief of Justice, la massima autorità, ha invece dato il via libera.
È un fatto che le accuse avrebbero comportato la detenzione in carceri di massima sicurezza con restrizioni durissime (una sorta di 41bis). Indiscutibile è anche la condizione di vulnerabilità e di sofferenza di Assange. Però c’è un fatto nuovo, dice la Corte. Sono le assicurazioni fornite successivamente dagli Usa, che s’impegnano a evitargli quel trattamento. In punta di diritto, si superano le obiezioni sulla loro tardività, ma è già il ricorso a tali assicurazioni che lascia perplessi. La tutela dei diritti umani non può essere affidata alla diplomazia.
Il rischio di tortura o maltrattamenti è indicato proprio dalla necessità di richiedere assicurazioni in proposito; sono pertanto, nelle parole di Amnesty, “intrinsecamente sbagliate e intrinsecamente inaffidabili”. Anche la Corte Edu ha questo approccio e raccomanda attenzione alle particolarità del caso. L’Alta Corte inglese evidenzia invece il carattere politico dell’estradizione: le assicurazioni sono solenni impegni fra gli Stati, Usa e Regno Unito hanno una storia di 150 anni di rapporti onorati. Ai casi opposti a smentita, si risponde che semmai si tratta di interpretazioni restrittive di taluni accordi. In realtà, le assicurazioni nel caso Assange paiono un “comma 22”. L’impegno è infatti di non rinchiudere Assange nei famigerati istituti di massima sicurezza, a condizione che una sua condotta successiva non realizzi le condizioni per tale regime.
Ben colgono il punto gli alti magistrati: non ritenere affidabili gli Usa significherebbe che non sono in buona fede. Dire no agli Usa è difficile, anche la nostra Cassazione è incline a concedere credito incondizionato, ma la vicenda Assange è indice del declino dell’egemonia culturale e valoriale degli Usa. È in gioco la tutela di un pilastro democratico, la libertà di parola e stampa, la più vitale nella Costituzione americana. Assange è accusato di violazione dell’Espionage Act, legge emanata nel 1917 in tempo di guerra, la cui applicazione è molto discrezionale, dovendosi accertare il pericolo creato dalle rivelazioni illecite. Uno strumento duttile per reprimere scomoda critica. Si era dapprima esitato a procedere, per il timore di dover perseguire anche i giornalisti del New York Times, del Guardian e di chi ha ripreso i documenti riservati. Si è puntato allora sul supposto coinvolgimento nel trafugare i documenti, non nel pubblicarli.
175. Sono gli anni di carcere che Julian Assange rischierebbe di scontare negli Stati Uniti
La linea di confine con il giornalismo investigativo è incerta e pericolosa. Pochi giorni dopo la pronuncia contro Assange, il New York Times svela il costo dei “danni collaterali” nelle incursioni aeree durante la guerra all’Isis in Siria e Iraq, specie con l’uso di droni. Obiettivi errati, informazioni poco ponderate, decisioni deliberatamente azzardate. Le vittime civili (alta la percentuale di bambini) sono migliaia. Uno schema ordinario, accettato, eppure nascosto, negato, minimizzato dall’esercito, in linea di continuità con ciò che aveva esposto Assange. È libertà denunciare i misfatti altrui, come quando si è documentato il bombardamento di quattro ospedali da parte dei jet russi in Siria (New York Times, ottobre 2019). Lo è di più documentare i misfatti propri. Perseguire Assange con ostinazione e lasciare impuniti i crimini da lui svelati è un doppio binario segno di crisi profonda.
Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il G8 dell’estate 2001.
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