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Perché non firmo la petizione per deviare la ciclabile adriatica lungo le coste del Gargano

Vista panoramica di Peschici © depositphoto

Progettare e realizzare lunghe ciclovie nazionali è un progetto politico che deve favorire le parti più deboli ed escluse del Paese. Non arricchire territori già ricchi o sviluppare il modello distruttivo del turismo di massa. È sulla lentezza che dobbiamo puntare. Dal Garda alla costa pugliese. L’analisi di Paolo Pileri

Il mondo della ciclabilità e del turismo (soprattutto) si stanno scatenando in una petizione per chiedere che la Ciclovia adriatica passi lungo la costa del Gargano. Proverò a dire perché non sono d’accordo.

Partiamo da una questione tecnica. A chi è del settore non sfugge che la costiera garganica è un luogo di enorme bellezza ma anche di altrettanta fragilità (geologica, ecologica e ambientale) e di indubbia congestione turistica (migliaia e migliaia di auto ovunque) che si scarica su una rete di strade e stradine strettissima e ripidissima. Questo significa che infilarci una ciclovia turistica -realizzata con determinati standard tecnici di qualità- non è una operazione indolore per il paesaggio e l’ambiente. Nel Gargano di spazio non ce n’è, a meno di compiere scempi come quelli che si compiranno lungo la ciclovia del Garda. Gli attraversamenti dei borghi costieri sono complicati, per non dire impossibili se si vogliono garantire standard di sicurezza per tutti e se, come immagino, gli interessi turistici locali non rinunceranno a una sola auto di turisti e residenti. Va quindi messo in conto che una ciclovia turistica lungo il Gargano significa mettere in conto in molti tratti danni al paesaggio, l’accettazione di situazioni di grave insicurezza o di limitazioni d’uso a partire da chi è meno esperto. Tutte situazioni che vanno evitate.

Ma più di questo c’è un discorso di opportunità -pubblica e sociale- da fare. La questione Gargano, come la questione del Garda e come quella di altre ciclovie che l’ingordigia turistica vorrebbe far passare in luoghi sovraffollati, mi aiuta di nuovo a chiarire un punto importante che riguarda la pianificazione a scala territoriale delle linee lente da un lato e le priorità sociali che su questa sfida possiamo immaginare come sistema Paese.

Provo a offrire una riflessione mettendomi dalla parte dello Stato, inteso come soggetto sensibile all’equità e al “pieno sviluppo” di tutti. Da anni sostengo che più che della bicicletta allo Stato deve interessare la cultura della lentezza (non solo sulle due ruote) e la rigenerazione dei territori più fragili e marginali che possono trarre beneficio da un’idea di turismo lento e qualificante che è cosa ben diversa dal turismo di massa, esclusivo e commercial-speculativo che si sta impossessando, senza che nessuno dissenta, anche di cammini e percorsi ciclabili.

Allo Stato consiglio, se me lo permette, di non lasciare che siano gli interessi di parte, o di una parte privata, a definire che cosa si intende per turismo lento, inseguendo i propri interessi di business. Se provo a ragionare da persona “di Stato” -nel senso che ho detto prima- oggi progettare e realizzare lunghe ciclovie nazionali diviene un progetto politico che deve favorire le parti più deboli ed escluse da decenni dai programmi di rigenerazione territoriale nel Paese. Sentieri e ciclabili possono essere potenti strumenti di riequilibrio territoriale, di riscatto sociale, di investimento sui giovani, per riabitare l’Italia più interna. Quando pensiamo alla ciclabilità turistica, pensiamo a questo? Non viene a caso, va voluto.

Quelle linee lente vorrei che rimanessero nelle mani di uno Stato visionario e non di un turismo avido e commerciale pronto a fare sempre più incassi nei luoghi dove gli incassi sono già forti, che vuole ciclovie costose e pagate dal pubblico (i privati non se le autofinanziano) per arricchire il proprio catalogo viaggi, per attrarre sempre più turisti in obbedienza al solito modello di sviluppo che non vuole darsi limiti ma strizzare il limone il più possibile.

Personalmente rimango convinto che occorra uno Stato che si interroga su quale turismo immaginare al di là della rendita finanziaria, del marketing degli eventi, del servizio commerciale da fornire. Prendere il turismo lento senza averlo definito e buttarlo tra i denti del turismo commerciale, per me significa rinunciare a fare una riflessione più densa, più sostenibile, più equa e di interesse per le aree più fragili. Con le poche risorse che abbiamo e con l’urgenza di dare una risposta ai territori che nel nostro Paese sono più svantaggiati, penso sia perfino doveroso rivolgere lo sguardo di questi investimenti “leggeri ma efficaci in generare occupazione di qualità e a basso impatto ambientale” verso le aree interne, proteggendole al contempo dai turismi dissipativi e usuranti.

Le linee lente ciclabili e camminabili se ben pianificate e volute per onorare la lentezza possono divenire inclusive, dare lavoro a chi non ce l’ha, possono aiutare le osterie dei nostri paesi interni a sopravvivere, i piccoli negozi a riaprire, possono divenire un complemento di reddito per tante aziende agricole dell’Italia interna, possono rimettere in luce i nostri patrimoni materiali e immateriali, possono tenere in vita quei servizi di prossimità dei quali la popolazione residente ha bisogno nei piccoli Comuni e che vede sparire giorno dopo giorno, ingoiati dall’egoismo di certi modelli di sviluppo come quelli, più recenti, a ridosso di logistica e commercio online.

Ecco perché, per me, il Gargano viene dopo l’entroterra molisano, dopo le murge, dopo i tratturi, dopo le colline appenniniche e dopo tanti altri luoghi disperati e dimenticati che sono nel ventre del Paese. Possibile che non riusciamo a ragionare con solidarietà e alterità? Ecco perché non spenderei i primi soldi dello Stato per la ciclovia del Garda che va solo ad arricchire una zona già estremamente ricca (sul Garda non spenderei nulla per fare ciclabili appese a falesie, come ho già scritto).

Certo, la finanza che ruota attorno al turismo, le imprese che hanno capito che nella lentezza c’è business, si sono attrezzate per bene per dire a tutti che il cicloturismo è una certa cosa e non un’altra. Che è adrenalina da bici o impresa no limits. E usano la bellezza per vendere pacchetti turistici sebbene non reinvestano un solo euro per tutelare quella bellezza fragile. Interessi di parte -che abilmente hanno occupato un vuoto colpevolmente lasciato da uno Stato distratto per anni- hanno messo in piedi report per dirci che cosa vogliono che sia il cicloturismo (come il rapporto Isnart, scientificamente assai discutibile); hanno inventato premi che si auto-aggiudicano (come il recente “Italian Green Awards”) influenzando così una certa idea di turismo che poi, a ben vedere, non è molto diversa da quella che nel passato ha segnato mezza Italia privatizzando le coste (e il Gargano non è sfuggito), cementificando ovunque, imponendo un modello massivo che ha usurato la bellezza dei nostri paesaggi consegnando tanti soldi a pochi e tanti debiti a molti.

Lo Stato che ho in mente non vuole che la lentezza sia contagiata dal turismo di massa a trazione finanziaria e, ripeto, speculativo-commerciale. Lo Stato che ho in mente e per cui ho lanciato il progetto VENTO è quello che fa di quelle linee un grande progetto culturale e di territorio per riabitare l’Italia più fragile, per rimettere i cittadini a fianco del paesaggio e ridargli memoria e diversità, per fare di quelle lunghe linee delle grandi occasioni pedagogiche dove ritroviamo la bellezza dei luoghi, dove impariamo a scrollarci di dosso il paradigma tecnocratico e del consumo, dove l’ansia della velocità a tutti i costi trova un momento di pausa che fa riflettere.

Lo Stato che ho in mente non inizia la sua avventura di lentezza dal Garda o dal Gargano ma dai più deboli; non vuole speculare, né cascare nell’equivoco che il cicloturismo è mettere la bici in un luogo già turistico. Lo Stato che ho in mente è capace di proporre ai suoi cittadini e a quelli di tutto il mondo che la bellezza dell’Italia sta in un muretto a secco o in un fiume interno o in un canale di bonifica di fine Ottocento, come nella torre di Pisa o nelle scogliere mozzafiato del Gargano. Lo Stato che ho in mente è ossessionato dal far crescere e migliorare i cittadini e ha in mente i cittadini, non i loro portafogli. Un grande progetto pubblico di linee lente per realizzare quel che è scritto nell’articolo 3 della nostra Costituzione “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Questo, prima di ogni altra cosa, mi convince che non è il caso di partire dal Gargano, che amo tantissimo. Vi sono aree del Paese appesantite da tonnellate di ostacoli e dove un filo leggero con un’idea di turismo da viaggio sostenibile e culturalmente qualificato produrrebbe lavoro sano e bello. Partiamo da questo.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)


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