Economia / Opinioni
Per sfatare i falsi miti sulle pensioni
Il dibattito neoliberista sulle riforme previdenziali in Italia è fermo ai luoghi comuni degli anni Novanta. Ma intanto il mondo è cambiato. La rubrica a cura dell’Osservatorio internazionale per la coesione e l’inclusione sociale (OCIS)
Da un decennio i governi non trovano soluzioni efficaci per il (pre-) pensionamento dei lavoratori anziani, né sono in grado di disegnare una riforma organica per garantire un futuro pensionistico sicuro alle giovani generazioni. Lo stallo deriva dall’ingessatura del dibattito nella cornice di impianto neoliberista che ha plasmato le grandi riforme degli anni Novanta. Presentata come equa e sostenibile, tale cornice poggia in realtà su quattro miti fondamentali.
Mito 1: l’equità del contributivo. “Prenderai di pensione quanto hai versato durante la carriera lavorativa” è il motto retorico che sostiene l’idea di equità del contributivo, il metodo di calcolo delle pensioni prevalente (nella forma mista o pura) per la maggior parte dei lavoratori. Tuttavia, la corrispondenza contributi versati-prestazioni ricevute si verifica solo per quei lavoratori con aspettativa di vita pari alla media nazionale. Nei fatti il contributivo produce effetti regressivi a svantaggio degli individui con minore longevità: quelli con più basso titolo di studio, che iniziano presto a lavorare, generalmente occupati in attività manuali e/o più gravose e con livelli di reddito più modesti, per i quali l’aspettativa di vita è di tre-cinque anni inferiore rispetto ai gruppi più avvantaggiati.
Mito 2: le pensioni dei lavoratori vanno finanziate solo tramite contributi sociali. Legata al mito della corrispondenza contributi-prestazioni a livello individuale è l’idea che il sistema pensionistico debba essere in equilibrio finanziario e non gravare sulla finanza pubblica. I dati mostrano la natura “mitologica” di tale narrazione. In Italia la quota a carico dei contributi sociali è diminuita dal 71% (2005) al 65% (2015) e tale tendenza è visibile in diversi Stati europei. Inoltre, solo in tre Paesi Ue i contributi sociali rappresentano oltre il 70% delle entrate per pensioni di vecchiaia. Insomma mentre risuona ritornello che le pensioni devono essere finanziate soltanto con contributi sociali, la quota a carico della fiscalità generale è generalmente elevata e, spesso, in aumento.
Mito 3: il contributivo funziona come “pilota automatico”. Sul piano economico è vero che il contributivo include due potenti stabilizzatori automatici della spesa che “immunizzano” il sistema pensionistico rispetto al rischio demografico ed economico (bassa crescita). Non è però auspicabile che il livello delle pensioni sia regolato al di fuori dei circuiti di rappresentanza politica e intermediazione degli interessi. E non è nemmeno realistico: come già accaduto nel 2014 infatti il “pilota automatico” può essere disattivato dal governo per bilanciare le esigenze della sostenibilità economico-finanziaria con gli imperativi dell’adeguatezza sociale.
Mito 4: l’aumento dell’aspettativa di vita deve tradursi in un pari aumento dell’età pensionabile. L’aspettativa di vita alla nascita è infatti aumentata dai 77 anni del 1989 ai 83,6 nel 2019, mentre negli ultimi anni si è registrata una diminuzione (82,7 anni nel 2021).
La trasposizione integrale di tali aumenti in incrementi dell’età pensionabile genera però iniquità per tre ragioni: i differenziali nell’aspettativa di vita delineati sopra; l’aspettativa di vita aumenta più lentamente tra i ceti svantaggiati; gli anni di vita attesi in buona salute a 65 anni sono circa la metà (10,1 anni) rispetto all’aspettativa di vita (20,6 anni) e soprattutto i primi mostrano una sostanziale stabilità rispetto all’aumento della seconda.
Affrontare il “trilemma dell’adeguatezza” delle pensioni -cioè l’efficiente ed equa combinazione di prevenzione della povertà nella vecchiaia, mantenimento di un livello adeguato di reddito per i lavoratori pensionati a età pensionabili congrue e sostenibili- richiede di superare i “miti” previdenziali e ri-disegnare un modello pensionistico in grado di neutralizzare gli effetti regressivi prodotti dalle riforme Amato, Dini e Fornero-Monti.
Matteo Jessoula è professore di Scienze politiche presso l’Università di Milano e co-direttore di OCIS
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