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Paradosso Anac: tutti la cercano, ma non sempre ha poteri adeguati
A cinque anni dalla nascita -ma sono tre quelli operativi- l’Autorità nazionale anticorruzione è sommersa da segnalazioni non pertinenti alla sua attività. E quando propone modifiche legislative spesso rimane inascoltata dalla politica
C’è stato chi le ha segnalato la condizione fatiscente del palazzetto dello sport di San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. O chi, dal Comune di Pozzuoli, ha lamentato la “limitazione della panoramicità” di un immobile per colpa di una costruzione abusiva. Da un condominio di Valeggio sul Mincio (VR) è partita una denuncia per “schiamazzi da bar” mentre da una località non specificata una signora ha spedito una “confusa nota” in cui se la prendeva con alcuni sindacalisti.
Queste segnalazioni sono solo una piccola parte delle 275 giunte nei primi due mesi del 2017 all’attenzione dell’Ufficio di vigilanza sulle misure anticorruzione in seno all’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione nata e presieduta dal 2014 dal magistrato Raffaele Cantone. Nella tabella che raccoglie le archiviazioni dei procedimenti c’è una colonna che ne sintetizza le “motivazioni”. Nella maggioranza dei casi, la formula è stringata: “non competenza”. Il punto è che ciascuna segnalazione, più o meno pertinente, ha richiesto all’organico dell’Autorità -al momento composto da 285 persone rispetto alle 350 previste a pieno regime- tempo, lavoro e approfondimenti, il più delle volte estranei al mandato che la legge assegna all’Anac. Ed è per questo che alla fine di aprile di quest’anno, tre anni dopo la nascita effettiva della struttura, il Consiglio dell’Autorità -vi siedono un presidente e quattro consiglieri nominati rispettivamente in aprile e in luglio 2014, e in carica per sei anni- ha approvato un comunicato pubblico di quattro pagine per fare chiarezza sul “perimetro di azione”. L’obiettivo è “sopravvivere all’aumento esponenziale di segnalazioni e metterci nelle condizioni di poter lavorare”, come spiega ad Altreconomia Nicoletta Parisi, componente del Consiglio dell’Anac e docente di Diritto pubblico comparato all’Università Cattolica di Milano. Il fraintendimento è una medaglia: da un lato è positivo, perché dà conto della fiducia posta dai cittadini nei confronti dell’Anac. Da un altro è negativo, come riconosce Parisi nel proprio ufficio a Scienze politiche dell’università milanese: “Questo investimento fiduciario ha un bruttissimo contraltare: riflette la maggior fiducia riposta nell’autorevolezza del presidente Cantone rispetto ad altri organi statali preposti a risolvere certi tipi di criticità. Che è una cosa negativa perché in uno Stato ciascuno ha il proprio posto e fa il proprio mestiere”. E, come ha avuto modo di ribadire lo stesso Cantone durante un convegno sulle autorità indipendenti dell’aprile scorso, il mestiere dell’Autorità nazionale anticorruzione “non è quello di prevenire la corruzione penale e tantomeno reprimerla ma far sì che vengano messe in atto azioni che assicurino la regolarità amministrativa e la sua massima trasparenza”. Significa ad esempio controllare l’affidamento e l’esecuzione dei contratti pubblici, monitorare i piani e le misure anticorruzione adottate dalle pubbliche amministrazioni (“generalmente insoddisfacente” si legge nella Relazione al Parlamento 2016 dell’Anac a proposito della qualità dei Piani triennali di prevenzione della corruzione delle amministrazioni), occuparsi degli obblighi di trasparenza o degli incarichi “inconferibili” o “incompatibili” dei funzionari pubblici, potenzialmente in conflitto di interessi e quindi all’anticamera della corruzione. Ecco perché i casi di corruzione penalmente rilevanti devono essere segnalati alla Procura. O quelli di malversazione di risorse pubbliche inoltrati alla Corte dei Conti. Il consigliere Parisi cita un caso avvenuto di recente: “Un whistleblower (termine che la lingua italiana non riesce a tradurre, se non con la brutta locuzione ‘chi spiffera’, ndr) ci ha comunicato un caso di stupro. Ora, capisco che si tratti di un caso gravissimo ma questo non è un caso di corruzione, a meno che a monte non ci sia un fatto corruttivo, che nel caso non ricorreva”.
“Quella dell’Anac è una sfida che riguarda prima di tutto la mentalità. La corruzione non è solo la violazione di disposizioni del codice penale” (Alberto Vannucci)
Secondo Alberto Vannucci, docente di Scienza politica all’Università di Pisa ed esperto di corruzione, è una confusione che arriva da lontano. “La nascita dell’Anac è un evento che ha una natura eterodiretta. Ricorrenti ‘emergenze giudiziarie’ e le raccomandazioni comunitarie a dotarsi di misure efficaci contro la corruzione portarono i governanti ad adottare la legge Severino, la 190/2012. Si decise così di riciclare quel che già c’era, convertendo al ruolo di Autorità anticorruzione l’allora Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CiVIT) voluta dall’ex ministro Renato Brunetta. Un organismo -spiega Vannucci- che aveva una funzione diversa, e cioè di valutazione delle politiche pubbliche in Italia. E già qui si vede il disorientamento della classe politica. Un passaggio cruciale è il 2014, quando all’Autorità viene data una testa, che è quella di Raffaele Cantone, e la debolezza strutturale della ‘piccola’ CiVIT è risolta con l’assorbimento dell’allora Autorità di vigilanza dei contratti pubblici”.
Nonostante la partenza in salita e la gestione forzata di segnalazioni sballate, l’Anac sta conducendo un lavoro prezioso che non sempre è tenuto in considerazione. Tra i compiti che le spettano, ad esempio, c’è anche quello di proporre al Parlamento modifiche legislative. Tra le ultime (gennaio 2017) ce n’è una che riguarda la norma sugli incarichi amministrativi dei funzionari pubblici (il decreto legislativo 39/2013). Lo scopo della legge dovrebbe esser quello di evitare che in una sola persona si concentri troppo potere. E perciò prevede cause di incompatibilità e di inconferibilità. “In questi pochi anni -racconta Parisi- ci siamo resi conto che in prima applicazione queste regole si sono rivelate abbastanza inutili, perché è sufficiente non attribuire poteri gestionali diretti a una persona per rendere inapplicabile la norma del decreto”. I numeri le danno ragione: sul totale dei procedimenti di vigilanza avviati dall’Anac tra il gennaio 2015 e il novembre 2016, ben il 77% sono stati archiviati per “assenza di deleghe gestionali”. Com’è stato possibile? L’Anac lo dice chiaramente al Parlamento. È “pratica diffusa” che gli statuti degli enti pubblici (o di diritto privato in controllo pubblico) vengano modificati ad hoc per togliere deleghe ai loro presidenti. Una “prassi elusiva che vanifica la vigilanza dell’Autorità, imponendo agli uffici un’attività di accertamento che si rivela inutile”. Si lavora a vuoto. Il legislatore lo sa, fin dal giugno 2015, ma non è ancora intervenuto. “Le indicazioni non sono state raccolte -spiega Parisi-, ma spetta a Governo e Parlamento stabilire le priorità politiche, non spetta all’Anac suggerirle”.
E quando l’Autorità, con non poca fatica, riesce ad accertare l’incompatibilità o l’inconferibilità di un determinato incarico, spetterebbe comunque al Responsabile prevenzione della corruzione (RPC) del singolo ente dar seguito all’accertamento fatto dall’Autorità. E potrebbe capitare -come del resto è capitato, da Napoli a Lecco- che l’RPC, nominato dal potere politico e unico interlocutore dell’Anac, non dia retta alle indicazioni ricevute; l’Autorità, per legge, nei suoi confronti ha un “potere di ordine” che è però sprovvisto di qualsiasi “potere sanzionatorio”. “Il nostro invito agli RPC -riflette Parisi- è quello di ‘usarci’ come fossimo uno strumento per rafforzare la propria credibilità e legittimazione entro l’ente. Un po’ come quando si dice: ‘l’Europa ce lo chiede’ per far accettare una decisione scomoda””.
Non si tratta di armi spuntate -anche se sul punto la legge potrebbe esser più chiara e determinata- ma della costruzione di un’autorità amministrativa indipendente che giurisdizionale non è, non vuole e non può essere. “Non può imporre decisioni -sostiene Vannucci- e se le si attribuisce impropriamente questo potere ci si ritroverebbe sommersi da ondate di ricorsi fino a salire al Consiglio di Stato. Quella dell’Anac è una sfida che riguarda prima di tutto la mentalità. La corruzione non è solo la violazione di disposizioni del codice penale ma è una dimensione più generale che coinvolge la mala gestio, la cattiva amministrazione, il cattivo governo. Non si tratta dunque di individuare ed espellere soltanto questo o quel funzionario o politico corrotto. È un percorso che richiede investimenti e pazienza”.
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