Economia / Inchiesta
Eni punta ancora su gas e petrolio. Se la svolta “verde” è pubblicità
Inchiesta sulla multinazionale degli idrocarburi. Gli investimenti sono ancora sbilanciati sullo sviluppo dei giacimenti e rispetto alle rinnovabili è indietro alle concorrenti. Con un approfondimento sullo stato di salute della “chimica verde”, sulle materie prime delle “bioraffinerie” e sulle iniziative concrete per l’economia circolare
“Eni + Silvia è meglio di Eni”. La campagna 2019 “Eni +1” è battente. Spot, cartelloni, banner, eventi, inserzioni pubblicitarie raccontano scenari di “decarbonizzazione”, “economia circolare”, “sostenibilità”. Per la multinazionale degli idrocarburi guidata dall’amministratore delegato Claudio Descalzi si tratta di una “chiamata collettiva all’azione”, dell’assunzione di “grandi responsabilità” di fronte alla “necessità di intervenire attivamente nel contrastare i cambiamenti climatici”. È un interesse “nazionale” considerato che lo Stato, tramite il ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti, è il primo azionista della società, con il 30,1% delle quote. “Insieme, abbiamo un’altra energia”, dice Eni rivolgendosi a Silvia, che “a casa è attenta a non sprecare acqua e chiude i rubinetti quando fa la doccia”, a Chiara, che “usa l’auto il meno possibile”, e a Luca, che “ricicla sempre la plastica”. Sarebbe bellissimo se non fosse per Eni. La società, infatti, continua a inseguire un “orizzonte fossile” -come dimostrano conti e investimenti- che mette al centro altri nomi rispetto a Chiara, Silvia o Luca e tutta un’altra energia.
Dati alla mano, Eni non sembra credere granché alla transizione. E la ragione è semplice: le energie rinnovabili rappresentano un rischio per il settore Gas&Power
“Statfjord”, ad esempio, si chiama un giacimento petrolifero che si trova in Norvegia, dove alla fine di settembre del 2019 Eni ha concluso un accordo da 4,5 miliardi di dollari con ExxonMobil. Per quella cifra, la multinazionale statunitense ha infatti ceduto quote di partecipazione in oltre 20 giacimenti produttivi nel Mare del Nord e nel Mar di Norvegia alla Vår Energi AS, posseduta dal “Cane a sei zampe” e dal fondo privato di investimento HitecVision. Produzione “di spettanza” prevista quest’anno: circa 150.000 barili di petrolio equivalente al giorno. “A seguito dell’acquisizione -ha dichiarato Eni- Vår Energi diventerà la seconda più grande compagnia E&P (esplorazione e produzione, ndr) in Norvegia, con riserve e risorse totali pari a circa 1,9 miliardi di barili di petrolio equivalente”. Nelle acque profonde del bacino di “Kutei”, in Indonesia, Eni si è invece aggiudicata a fine agosto di quest’anno il blocco esplorativo di West Ganal, con i 17 miliardi di metri cubi di gas del giacimento “scoperto” denominato Maha. “Questa assegnazione rafforza ulteriormente il portafoglio di attività upstream di Eni in Indonesia nel bacino di Kutei del Kalimantan orientale -ha commentato l’azienda di San Donato Milanese (MI)-, una delle aree più promettenti per il potenziale di idrocarburi”. Poi c’è il giacimento petrolifero di “Oooguruk”, nel Mare di Beaufort, in Alaska. Ai primi di gennaio del 2019, Eni, che già ne possedeva il 30%, ne ha rilevato il restante 70%, diventandone così l’unico “operatore”. Venticinque pozzi in produzione, quindici iniettori di gas e acqua e una capacità lorda di circa 10mila barili di petrolio al giorno. “Questa operazione rafforzerà ulteriormente la presenza di Eni nella regione dopo la recente acquisizione effettuata nell’estate 2018 di 124 licenze esplorative (per un totale di circa 1.400 chilometri quadrati) situati nella parte orientale del North Slope dell’Alaska”, si legge nel comunicato stampa a conclusione dell’affare con la Caelus Natural Resources Alaska LLC.
Dal Nord America al Nord Africa. Ad agosto l’azienda italiana ha festeggiato la produzione record del giacimento di “Zohr” -a suo tempo, nell’estate del 2015, “la più grande scoperta di gas mai realizzata in Egitto e nel Mar Mediterraneo” (Eni)-, che avrebbe raggiunto quota 2,7 miliardi di piedi cubi di gas al giorno (bfcd), e l’avvio lì del nuovo gasdotto lungo 216 chilometri che collega gli impianti di produzione sottomarini all’impianto di trattamento a terra. Tra gli altri nomi ci sono anche “Sankofa” e “Gye Nyame”, aree di sviluppo nel bacino del Tano, offshore del Ghana, dove a luglio Eni si è aggiudicata i diritti per l’esplorazione e la produzione nel blocco “WB03”. Un risultato che permetterà alla compagnia di “consolidare” la propria presenza nel Paese ritenuto “chiave nella strategia di crescita” e in grado di garantire una produzione di circa 70mila barili di olio equivalente al giorno.
L’elenco è lungo, considerate le dimensioni di un gigante quotato in Borsa che opera in 67 Paesi, impiega circa 31mila persone, fa conto su riserve pari a 7,1 miliardi di barili di petrolio equivalente, per l’82% localizzate in Paesi non OCSE (in particolare Africa, Asia Centrale, Sud-Est asiatico e America Meridionale). Al primo semestre di quest’anno la produzione di barili di petrolio equivalente è stata intorno a 1,83 milioni al giorno, mentre alla voce “Emissioni dirette di gas serra” sono state oltrepassate le 20,8 milioni di tonnellate di CO2 equivalente. Risultato? 36,9 miliardi di euro di fatturato (gennaio-giugno 2019) -in particolare da vendita di greggio e gas- e 4,7 miliardi di utile operativo.
Eni continua a investire nel settore degli idrocarburi nonostante lo stile low carbon, tanto da essersi meritata quest’estate la qualifica di “Enemy of the Planet” (Nemico del Pianeta, titolo dell’omonimo report) da parte di Legambiente. Sul Sole 24 Ore del 18 ottobre scorso, l’ad Claudio Descalzi -che ha declinato la nostra richiesta di intervista- ha però rivendicato con orgoglio di aver puntato su progetti di decarbonizzazione e di aver collocato l’azienda “sulla nuova frontiera”. “Parlano i fatti”, ha detto. “Un miliardo di investimenti in ricerca e sviluppo e tre miliardi nella realizzazione di progetti di decarbonizzazione nei prossimi tre anni”. Le cifre, da sole, possono impressionare. Confrontate però con gli investimenti di Eni riportati nella Relazione finanziaria semestrale consolidata del 30 giugno 2019, l’effetto è diverso. Nel periodo gennaio-giugno di quest’anno, la società ha finanziato “investimenti tecnici” per 4.236 milioni di euro, quasi 4,3 miliardi. La fetta principale della torta (2.957 milioni, il 70 per cento circa) è andata allo “sviluppo di giacimenti di idrocarburi”, “in particolare in Egitto, Nigeria, Ghana, Libia, Messico, Indonesia e Stati Uniti”. Seguono a distanza le voci “Refining&Marketing” -ovvero approvvigionamento, fornitura, lavorazione, distribuzione e marketing di carburanti e prodotti chimici- con 379 milioni, l’“acquisto di riserve” certe e non (372 milioni) e la “ricerca esplorativa” (313 milioni, in Angola, Kazakhstan, Vietnam, Mozambico e altrove, in crescita del 94,4% rispetto al 2018).
Investimenti certi in “decarbonizzazione” non ne risultano, se non una generica “segnalazione” dell’avvio di alcuni cantieri per la realizzazione di un impianto eolico in Kazakhstan e tre fotovoltaici tra Italia, Tunisia e Australia. La capacità installata di Eni per impianti di generazione elettrica da fonti rinnovabili, al 30 giugno 2019, è ferma a quota 40 MW, ben al di sotto dei concorrenti BP (1,5 GW al 31 dicembre 2018), Total (0,7 GW), Shell (0,6 GW) Equinor (0,6 GW), e più vicina alle “prestazioni” di Chevron ed Exxon. L’obiettivo dichiarato della multinazionale sarebbe quello di portare quei 40 MW a 1 GW entro il 2021, ad almeno 1,6 GW entro il 2022 e a 5 GW entro il 2025. Per farlo occorrono investimenti, a partire dalla ricerca e sviluppo (R&S). Com’è andata nel 2018? Parlano i dati: su 197 milioni di euro investiti complessivamente in R&S -nulla se confrontati con lo sviluppo dei giacimenti, vedi la tabella- 83,2 milioni sono andati ad “altre tematiche tra cui esplorazione”. Alla voce “decarbonizzazione” sono andati invece 74,3 milioni, divisi in primo luogo tra “rinnovabili” (24,6 milioni di euro) “riduzione delle emissioni” (12,7) e -sorprendentemente- “promozione del gas” (12,2 milioni), che però è un combustibile fossile.
Dati alla mano, quindi, Eni non sembra credere granché alla transizione. E la ragione è semplice: le energie rinnovabili e la loro continua espansione sul mercato rappresentano un rischio per il settore Gas&Power, fonte indiscussa degli attuali ricavi dell’azienda. Ed è lo stesso per le politiche sul clima. “Nel lungo termine -riporta il ‘Commento’ Eni ai risultati del primo semestre 2019- è prevedibile che la domanda di idrocarburi possa essere impattata negativamente dall’adozione di politiche ambientali sempre più severe per il contenimento delle emissioni di GHG (gas climalteranti, ndr) a livello regionale, nazionale e internazionale […] e da breakthrough (passi in avanti, ndr) tecnologici quali quelli nel campo della produzione e stoccaggio delle energie rinnovabili o nell’efficienza dei veicoli elettrici”. E poiché il business upstream, ovvero l’“elemento principale di creazione di valore di Eni”, dipende dal livello globale della domanda di idrocarburi, “ciò potrebbe comportare conseguenze negative rilevanti sui risultati, la liquidità e le prospettive di business della società, compreso l’andamento del titolo”. La preoccupazione è motivata, come sa Andrew Grant, analista del gruppo internazionale Carbon Tracker (carbontracker.org), composto da esperti finanziari, energetici e legali che si occupa di approcci innovativi per limitare le emissioni di gas serra. La lettura dei bilanci dei colossi degli idrocarburi e la verifica della loro sostenibilità è il suo mestiere. Nel settembre 2019, con Mike Coffin, ha curato il report “Breaking the habit”, rompere l’abitudine, dal quale è emerso come “nessuna delle grandi compagnie petrolifere” sarebbe “allineata” agli obiettivi di mitigazione delle emissioni globali di gas serra e del riscaldamento globale previsti dall’Accordo di Parigi del 2015 (“Ben al di sotto di 2 °C”, 1,5 °C).
Prova ne sarebbero alcuni importanti progetti approvati nel 2018 o in fieri nel 2019, le cui riserve “in un mondo economicamente coerente e a basse emissioni di carbonio -come spiega Grant ad Altreconomia– rischierebbero di rimanere finanziariamente ‘incagliati’”. Il nodo è quello dei cosiddetti stranded assets, ovvero quelle riserve di combustibili fossili messe a bilancio come futuri ricavi dei progetti citati ma che nella prospettiva della decarbonizzazione rischiano di non essere più recuperabili e quindi divenire molto costose. Una “bolla” che è variabile a seconda degli scenari considerati. Il valore dei progetti recentemente approvati nel settore del petrolio e del gas che non avrebbero superato il “test di allineamento con Parigi” messo a punto da Carbon Tracker si aggirerebbe infatti intorno ai 50 miliardi di dollari. Oltre a Chevron ed ExxonMobil, sono “incluse anche quelle grandi imprese europee che rassicurano i propri investitori di esser sensibili alle questioni climatiche”, chiarisce Grant. BP, Shell, Total, Equinor. E anche Eni, interessata nello specifico con il progetto “Amoca”, nell’Area 1 della baia di Campeche (riserva da 2,1 miliardi di barili di petrolio equivalente), nell’offshore del Messico.
La soluzione dell’incaglio non pare essere il gas, anche se le aziende fossili -che pur non stanno disinvestendo dal petrolio- lo presentano pubblicamente come un alleato decisivo nella transizione. Una tesi, quella del “combustibile ponte”, messa in discussione dal report di Carbon Tracker e smontata da un prezioso lavoro del maggio 2019 a cura dell’organizzazione “Oil Change International” (priceofoil.org), sostenuta da Greenpeace.
33miliardi di euro, gli investimenti annunciati da Eni nel quadriennio 2019-2022. La stragrande maggioranza (77%) verrà assorbita dal comparto esplorazione e sviluppo di risorse fossili
Che cosa resta quindi della “nuova frontiera” di Eni? In più di un’occasione Descalzi si è detto impegnato in una “grande trasformazione” della chimica -grazie alla società Versalis, controllata da Eni- e della raffinazione, per mezzo delle “bioraffinerie” di Gela (inaugurata a fine settembre 2019) e Venezia (attiva dal 2014). Il racconto mediatico delle raffinerie green culla del biocarburante descrive gli impianti come in grado di produrre “green diesel, green nafta, GPL” trasformando sempre più “quantità elevate di oli vegetali usati e di frittura, grassi animali, alghe e sottoprodotti di scarto”.
Anche in questo caso sono decisivi i dettagli. Prendiamo Venezia: nel 2018 l’impianto di Porto Marghera ha prodotto 220mila tonnellate di “biocarburanti” che hanno avuto un’incidenza del 7,3% sulle vendite complessive di gasolio Eni, non scostandosi troppo dal 5% del 2016. Quali materie prime green sono state lavorate? Eni ha fatto sapere ad Altreconomia che lo scorso anno si è trattato di 253mila tonnellate di biomasse oleose e ben 862mila tonnellate di virgin naphtha, un prodotto derivante della raffinazione del petrolio. Poi c’è Gela. Il progetto definitivo del rilancio siciliano chiarisce anche in questo caso quali sono le materie prime del biocarburante: i grassi animali e l’olio da cucina esausto saranno trattati in quantitativi annui massimi di 400mila tonnellate mentre gli oli vegetali grezzi, ovvero il contestato olio di palma, restano saldamente oltre quota 730mila tonnellate/annue. L’ultima tappa di questo viaggio è la chimica. “Stiamo puntando sulla chimica verde e sull’economia circolare -le parole di Descalzi sul Sole 24 Ore a metà ottobre- per rilanciare una società che dopo aver perso molto in passato è a break even”, cioè in pareggio. Quella società è Versalis, per il 100% in mano a Eni. Nessuna parola invece per un’altra tessera presentata tempo fa come strategica nel percorso green di Eni e apparentemente uscita dai radar. Si tratta di Matrìca Spa, joint venture 50 e 50 tra Eni e Novamont che avrebbe dovuto sviluppare a Porto Torres, in Sardegna, una piattaforma integrata dedicata alla produzione di una nuova gamma di prodotti da materie prime rinnovabili e a basso impatto ambientale.
Il bilancio 2018 non è stato ancora depositato in Camera di commercio mentre il 2017 aveva chiuso con una perdita di 216 milioni di euro e il patrimonio netto in rosso per 176 milioni. Stando ai vertici di Eni, Versalis dovrebbe godere al contrario di ottima salute. Una salute “di plastica”. Nel 2018, buona parte dei suoi ricavi (5,1 miliardi di euro) è arrivata dalla vendita di polimeri, “intermedi” e polietilene, ovvero materiali plastici dalle caratteristiche diverse derivanti dal processo di lavorazione del petrolio o del gas naturale. Il punto è quanto scommette davvero Versalis sulla “chimica verde”. Stando alle tabelle riportate nel bilancio 2018 si potrebbe concludere “zero”. Gli investimenti tecnici (150 milioni di euro) hanno riguardato infatti soprattutto “olefine”, “elastomeri”, “polietilene”. La voce “Chimica verde” sarebbe passata da 1 milione del 2016 a uno spazio vuoto. Possibile? Eni ha fatto sapere che “Versalis prosegue il proprio impegno nel rafforzare il posizionamento competitivo nella chimica da fonti rinnovabili, le cui attività sono confluite nella nuova business unit biotech”.
Quanto sia “verde” produrre e investire in nuove plastiche è una questione quanto meno soggettiva. Oggettive, invece, sono le perdite registrate da Versalis lo scorso anno, pari a 460 milioni di euro, e l’impressionante variazione assoluta negativa rispetto all’esercizio precedente di 763 milioni di euro. Queste prestazioni hanno avuto un effetto immediato sul patrimonio netto della società, passato da 1.860 milioni di euro a fine 2017 a 1.196 a fine 2018, -35%. Dove sono finiti quei 664 milioni di euro di differenza? Oltre la metà nelle perdite, mentre 304 milioni sono stati distribuiti come dividendo alla controllante: Eni. Un esempio di economia circolare.
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