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Economia

Ombre dietro il carrello – Ae 93

Ormai politici ed economisti parlano apertamente di recessione: la produzione non cresce e nemmeno i consumi. Vi spieghiamo il fallimento di un sistema che ha spostato le fabbriche nel Sud del mondo mentre il Nord comprava a credito Recessione è…

Tratto da Altreconomia 93 — Aprile 2008

Ormai politici ed economisti parlano apertamente di recessione: la produzione non cresce e nemmeno i consumi. Vi spieghiamo il fallimento di un sistema che ha spostato le fabbriche nel Sud del mondo mentre il Nord comprava a credito


Recessione è una parola che fa paura. Significa che il prodotto interno lordo, il famoso Pil, smette di crescere. Adesso banchieri, politici ed economisti l’hanno pronunciata, prima a mezza voce, poi a chiara lettere, e il mondo è rimasto ammutolito, come se avesse letto l’annuncio di una nuova guerra. Recessione significa crescita negativa, riduzione della produzione, degli investimenti e, con ogni probabilità, dell’occupazione nei maggiori Paesi industriali. Nessuno la vuole, ma non hanno fatto niente per impedirla: le condizioni per una recessione mondiale c’erano tutte da tempo. Era stata evitata, o meglio rinviata, solo grazie al forte indebitamento degli Stati Uniti, che utilizzando marchingegni strani e improbabili, come i subprime, tentavano cocciutamente di correre più veloce di quanto le loro gambe permettessero.

La manifestazione più chiara di questa corsa era l’andamento dei cosiddetti deficit gemelli. Da un lato il deficit del bilancio del Governo federale, passato da un surplus pari al 2,5% del Prodotto interno lordo (Pil) nel 2001 a un ammanco del 3,5% nel 2004, portando il debito pubblico Usa a circa due terzi del Pil. Dall’altro il deficit dei conti con l’estero, che è arrivato nel 2007 a quasi il 7% del Pil, indicando una netta supremazia delle importazioni rispetto alle importazioni. Il grande boom dei consumi era quindi il segno che molti americani stavano vivendo decisamente al di sopra delle proprie possibilità e andavano accumulando una montagna di debiti che prima o poi avrebbero dovuto essere pagati. Mutui e prestiti personali di ogni tipo hanno portato l’indebitamento delle famiglie americane addirittura a superare il Pil (in Italia esso è meno di un terzo, vedi Ae 90, nell’area dell’euro circa la metà). Un antico adagio dice che non è possibile avere allo stesso tempo “burro e cannoni”: tuttavia l’ampio credito ottenuto sui mercati finanziari di tutto il mondo ha permesso agli Usa di continuare ad aumentare il loro regime di consumi e, allo stesso tempo, di finanziare una guerra che si è rivelata costosissima, ma ha permesso alla produzione americana, stagnante all’inizio del millennio, di ricominciare a correre. Nel frattempo il resto del mondo Occidentale registrava una crescita media del Pil tutto sommato asfittica e l’Italia in particolare rimaneva di fatto inchiodata.

Gli americani potevano indebitarsi senza andare in bancarotta perché qualcuno era interessato a mantenere alti i loro consumi, nonostante gli evidenti problemi strutturali. Un ruolo fondamentale è stato quello di molte economie emergenti, come Cina e India. Questi Paesi, infatti, hanno accettato di importare negli Stati Uniti merci in cambio di titoli finanziari. Sembra paradossale: Paesi emergenti che finanziano i consumi della principale economia mondiale! D’altronde, solo in questo modo era possibile evitare una svalutazione del dollaro nei confronti delle loro monete, e Cina e India hanno un interesse diretto a mantenere poco costose le loro merci per il consumatore americano, perché i consumatori cinesi e indiani non sono ancora abbastanza ricchi, in media, per potersele permettere. L’altro canale che ha permesso l’espansione del debito americano è stata la politica espansiva della Federal Reserve (Fed). La politica di bassi tassi d’interesse e i nuovi strumenti finanziari adottati dalle banche hanno permesso di indebitarsi anche a famiglie con redditi molto bassi, incentivando gli investimenti immobiliari e innescando una spirale di crescita dei prezzi delle abitazioni che ha sostenuto buona parte della crescita e permesso una buona tenuta dei consumi. Nessuno, però, può vivere perennemente al di sopra delle proprie possibilità: soltanto un’economia sana e con una crescita costante del reddito può permettersi una tale situazione di indebitamento. Altrimenti occorre prima o poi raffreddare i consumi e cominciare a ripagare il dovuto. La festa è durata sostanzialmente fino al 2006: poi, una dopo l’altra, sono venute a mancare le condizioni che avevano garantito l’euforia. La Fed, preoccupata per l’inflazione e per l’aumento del deficit commerciale, ha cominciato a rialzare i tassi d’interesse, riportandoli gradualmente a livelli “normali” (4-5%) e anche il Governo federale ha ridotto il suo disavanzo. È a questo punto che è scattata la crisi dei subprime: l’aumento dei tassi d’interesse ha fatto emergere la situazione di insolvenza che si nascondeva sotto tanti titoli strutturati che le banche avevano collocato nel mercato. Molte famiglie non ce la facevano più a pagare le rate del loro debito: le banche e le istituzioni finanziarie che avevano assorbito i “titoli salsiccia” hanno cominciato a dichiarare pesanti perdite nei loro bilanci. Qualche testa importante è caduta e molti posti di lavoro sono stati tagliati.

Nel frattempo le Borse di tutto il mondo hanno cominciato a perdere terreno, bruciando qualche centinaia di miliardi di valori mobiliari, la fiducia dei consumatori è calata, il Fondo monetario ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita dei principali Paesi, dagli Stati Uniti all’Europa, compresa, pare quasi incredibile, la Cina, fortemente legata all’export verso gli Usa. A ciò si è aggiunta l’impennata del prezzo del petrolio, giunto a livelli paragonabili a quelli del 1973, a causa di speculazioni di varia natura, della tensione ormai pressoché continua in Medio Oriente e del fatto che qualcuno inizia a preoccuparsi del fatto che le risorse naturali non sono illimitate. Questo aumento non ha causato il panico degli anni 70 -e in Europa è stato in parte ridimensionato dal deprezzamento del dollaro- ma porta con sé effetti striscianti, come il fatto che l’inflazione inevitabilmente sta rialzando la testa e questo può legare le mani ai banchieri centrali, soprattutto la Banca Centrale Europea, sulle manovre di politica monetaria. Ecco che fa capolino la recessione: difficile dire se l’atterraggio sarà più o meno drammatico, anche se la storia ci ha insegnato che il sistema spesso trova da solo nuovi assestamenti, basati su equilibri ancor più fragili dei precedenti e su conseguenze transitori e potenzialmente ancor più devastanti.
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Radiografia della crisi dei consumi

La macchina della produzione mondiale sta rallentando e, dicono in molti, si fermerà, almeno per un po’. Alcune dinamiche del processo economico mondiale negli ultimi anni possono spiegare, almeno in parte, quello che sta accadendo. Dal 1995 al 2005 la produzione mondiale è aumentata di circa il 45%. I due terzi di questo aumento si è localizzato nei Paesi in via di sviluppo (Pvs) che hanno incrementato il loro contributo all’output mondiale dal 39 al 46%. In particolare, la regione dell’Asia orientale e pacifico, che comprende Cina e India, ha duplicato in 10 anni la sua produzione. A prima vista questi dati rappresentano una buona notizia: finalmente anche i Paesi meno sviluppati hanno avuto qualche beneficio dalla globalizzazione. L’allargamento del processo di crescita ai Paesi più poveri è una delle profezie del pensiero economico dominante, e spesso il rompicapo è spiegare come mai non avvenga. Negli ultimi 10 anni la teoria ha invece trovato qualche conferma: i capitali esteri sono affluiti nei Paesi poveri per finanziare nuove imprese; le tecnologie più avanzate dal Nord sono state trasferite al Sud, attirate dalla manodopera a basso, bassissimo costo. La loro produzione è aumentata a dismisura, almeno in alcuni Paesi.

I dati, però, mostrano che nei Pvs i salari e i consumi stanno crescendo a una velocità meno sostenuta della produzione. Le disuguaglianze si sono accentuate e i bassi redditi della maggior parte della popolazione non hanno permesso un’adeguata crescita dei consumi. La ruota del consumo interno non era abbastanza gonfia da sostenere la macchina produttiva delle economie emergenti e queste hanno dovuto cercare nell’export (ovvero nel consumo altrui) il sostegno alla propria crescita. La Cina nel 2005 è divenuto il primo esportatore mondiale, superando gli Usa. E l’India presto arriverà al sorpasso.

Se i Paesi poveri non ce la fanno a consumare abbastanza, occorre dunque che siano quelli ricchi a consumare di più! Ecco il paradosso a cui abbiamo assistito in questi anni.

Ma la soluzione non era così semplice: anche i consumi del Nord del mondo rischiavano di essere troppo fiacchi per assorbire una produzione mondiale in continua crescita. Anche nelle nostre società opulente infatti la disuguaglianze sono andate crescendo molto. A causa del processo di delocalizzazione di molte imprese e della crescente immigrazione, i lavoratori meno qualificati dei Paesi del Nord si sono trovati in concorrenza con persone disposte a lavorare per pochi euro al giorno. La forbice fra ricchi e poveri nei Paesi sviluppati si è allargata; la quota dei profitti e delle rendite sul reddito nazionale è cresciuta mentre i redditi da lavoro sono rimasti stagnanti. Ma una distribuzione diseguale dei redditi non aiuta i consumi: la maggiore ricchezza dei ricchi è spesso investita in attività speculative, mentre i più poveri si trovano a non poter consumare quanto vorrebbero. Negli Usa il credito al consumo ha giocato la sua parte nel tenere sotto pressione la ruota dei consumi: i meno abbienti sono stati indotti ad indebitarsi per consumare oltre il loro reddito. Gli Usa hanno creato le condizioni affinché ciò avvenisse: bassi tassi di interesse, strumenti finanziari flessibili, persuasione più o meno occulta sulla necessità di non abbassare il proprio stile di vita per sostenere l’economia.

In Europa si è scelto una strada diversa, forse perché i timori di un innalzamento dell’inflazione hanno indotto la Bce ad un atteggiamento più prudente, mentre i governi avevano le mani legate dai parametri di Maastricht. Grazie alla ruota dei consumi americani gonfiata dal debito, la macchina, pur squilibrata, si è rimessa in pista. Adesso la crisi dei subprime sta obbligando il sistema a cercare un nuovo equilibrio. La ruota del consumo Usa, ormai sgonfiata dallo scoppio della bolla finanziaria, non può continuare ad assorbire la produzione dei Paesi emergenti. E due ruote sgonfie sono troppe, anche per il potente motore della produzione globale, perché il livello di indebitamento complessivo delle famiglie ha ormai raggiunto una soglia critica, tale da mettere in dubbio la capacità di restituzione.

Secondo il pensiero economico maggioritario, stiamo vivendo un momento di transizione che ci porterà a un nuovo equilibrio, migliore del passato: i salari nel Sud del mondo cresceranno e ciò renderà nuovamente floride anche le nostre economie, che potranno tornare ad essere competitive e vendere le loro merci ai nuovi consumatori indiani e cinesi. Ma questa visione superficialmente ottimistica trascura alcuni dettagli assai rilevanti. Il primo è che viviamo in una perenne transizione, e le transizioni non sono mai indolori: la recessione provocherà una brusca e duratura caduta dell’occupazione e dei salari nelle economie sviluppate, e a soffrirne di più saranno certamente

le classi meno agiate della società. Il secondo problema è che la crescita della produzione nei Paesi del Sud del mondo deve fare i conti con la scarsità delle risorse. Il petrolio è solo l’esempio più significativo. Non bastano un buon motore e le ruote gonfie per far correre la macchina: ci vuole anche la benzina. Nel frattempo la crisi dei subprime ha portato a galla una verità nascosta: nel lungo periodo non è possibile una crescita sostenuta del reddito se questo non viene equamente ripartito.


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Come scialuppa i beni comuni

di Francesco Gesualdi

Di tutti i mali possibili, la recessione è quello che il capitalismo teme di più, non solo per le fortune finanziarie che può mandare in frantumi, per le aziende che può mettere in crisi, per il numero di senza lavoro che può provocare, ma anche per la crisi di fede che può ingenerare. Tecnicamente la recessione è una riduzione di  produzione e consumo, è il Pil che invece di crescere diminuisce. Politicamente è la caduta di un mito, il fallimento dell’ideologia della crescita su cui è costruita l’intera impalcatura capitalista.

Per questo, a crisi conclamata, gli economisti accorrono a frotte, ciascuno con la propria interpretazione dei fatti e con la propria ricetta, ma tutti con lo stesso obiettivo: rimette rapidamente il sistema in piedi per farlo riprendere a correre.

Di solito la parola d’ordine è minimizzare, non creare allarmismi, e anche questa volta la consegna è stata rispettata: l’attenzione è concentrata sugli Stati Uniti dove il terremoto si è manifestato, ma pochi cercano l’epicentro, il punto da dove tutto è partito. Ricerca pericolosa perchè a finire sotto accusa sarebbe la globalizzazione, altro mito moderno che è proibito mettere in discussione. Gli studiosi più attenti, come Susan George, avevano previsto la crisi da tempo e non perchè possedessero la sfera di cristallo, ma perchè avevano conservato la  lucidità di chi sa fare due più due. La stessa lucidità del buon senso popolare che aveva capito quanto non potesse funzionare un sistema che esporta la produzione nei luoghi del mondo dove i salari sono a livello “da fame” con la pretesa di rivendere i prodotti in Europa e Stati Uniti nel frattempo impoveriti.

Lo stratagemma trovato dal sistema per trovare la quadratura del cerchio è stato il debito statunitense, ma non è durato a lungo. Ora che il giocattolo è infranto, il sistema cerca una via per tornare a crescere, possibilmente senza affrontare il tema della perdita del potere d’acquisto dei salari che è alla base della crisi. Vedremo quale altro coniglio i maghi dell’economia tireranno fuori dal cilindro, ma la sensazione è che, indipendentemente dalla strategia prescelta, cozzeranno contro un nuovo muro, questa volta più alto di sempre perché non è di natura economica.

È il muro posto dal pianeta che sta esaurendo le sue risorse e sta agonizzando sotto i nostri rifiuti, come dimostra l’impennata del prezzo del petrolio, dell’acqua, del cibo. Stagnazione e inflazione, un vero incubo che non si vedeva dagli anni Settanta.

Imperterriti, economisti, imprenditori e politici si rifiutano di guardare la realtà in faccia e continuano a  costruire un mondo sempre più iniquo, totalmente incentrato sul mercato, nella certezza che nessuno reclamerà perchè la nuova crescita saprà elargire qualche contentino anche agli ultimi. E quando toccheremo con mano che non ci sono più margini di crescita sarà troppo tardi, i più deboli saranno sollevati dalle onde dell’inflazione e scaraventati con forza sugli scogli della povertà. Questo è il metodo di salvataggio adottato dal mercato: quando le scialuppe scarseggiano alza il prezzo di accesso affinchè sia la ricchezza a decretare chi deve annegare e chi deve salvarsi. Ma c’è un modo per salvarci: ammettere che la tempesta sta per infuriare e dedicarci alla costruzione di scialuppe per tutti. Fuor di metafora si tratta di ammettere che il tempo della crescita è finito e che dobbiamo potenziare la solidarietà collettiva, l’economia pubblica, l’economia locale, i percorsi privilegiati per salvaguardare i beni comuni e i diritti per tutti.

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