Esteri / Reportage
Una nuova rotta commerciale collega Afghanistan e Turchia
Marmi pregiati, litio, zafferano e cotone arrivano in Europa attraverso il nuovo corridoio “Lapis Lazuli”, che apre inediti scenari geopolitici in Asia Centrale. Sempre sotto l’occhio attento della Cina, che si lancia nel “Grande Gioco”
Pedone in E4. Il Grande Gioco per il controllo dell’Asia Centrale è ricominciato, ma i cittadini di Kars hanno accolto la notizia senza fare una piega: comodamente seduti nelle loro case del tè, sguardo assorto sulle rovine del castello della dinastia Zakarid e gli immancabili rimbrotti al chiocciare delle galline per strada. Gli strilli per l’inaugurazione del corridoio commerciale “Lapis Lazuli”, che dal 13 dicembre scorso unisce la remota cittadina ai confini Nord-Orientali della Turchia con l’Afghanistan, sono stati ripresi addirittura in lingua inglese dall’Hürriyet Daily News, ma nel sopore di Kars suonano quasi surreali.
Terminata la passerella dei politici di Istanbul, delle autorità georgiane, azere, turkmene e afghane, sui binari della ferrovia locale non sono rimasti che acini marci e qualche melagrana bacata di Kandahar. Il primo convoglio, formato da ben nove camion e partito dal capolinea afghano di Torghundi, nella regione di Herat, trasportava infatti 23 tonnellate di uva, altre 26 di semi di angurie, 2,5 di sesamo e 83 tonnellate di filo di cotone. Nei giorni seguenti sono poi transitati stock in arrivo dalla secondo centro di smistamento del corridoio, la città di Aquina, a pochi chilometri dal confine con l’Uzbekistan. Non più derrate alimentari, ma minerali strategici come ferro, rame, niobio e litio, di cui l’Afghanistan si è scoperto ricchissimo e grazie a cui è pronto a ritagliarsi un nuovo ruolo da protagonista dopo 17 anni di isolamento. E ancora, zafferano di Herat, premiato per tre anni come il migliore al mondo, oltre al pregiatissimo marmo di Herat, destinato soprattutto al mercato italiano. Diretti a Ovest, i Tir non seguono però rotte differenti: già all’altezza della capitale del Turkmenistan si ricongiungono per proseguire, uno dietro l’altro, sino al porto internazionale di Turkmenbashi, sul Mar Caspio.
Il corridoio “Lapis Lazuli”, così chiamato in ricordo della preziosa pietra azzurra scambiata lungo l’antica Via della seta fra Cina ed Europa, è una creazione dell’Asia Development Bank dal valore di 2 miliardi di dollari e prevede tratte via terra, via mare, nonché su rotaia. Dal 2017 è infatti entrata in servizio anche la ferrovia Baku-Tbilisi-Kars, attraverso cui le capitali dell’Azerbaijan e della Georgia sono oggi unite all’estremo avamposto turco. Destinazione finale, il Bosforo, raggiunto in una settimana circa di viaggio, su un percorso di 3.050 chilometri (da Aquina sono circa 3.280), lungo il quale si celano interessi assai più remunerativi del giro d’affari dichiarato: l’export dell’Afghanistan verso l’Europa, secondo le stime della Camera Afghana del Commercio e dell’Industria (ACCI), vale oggi poco più di 6 milioni di dollari all’anno, a fronte di un volume d’import, via Turchia e Iran, pari a 900 milioni di dollari (cifre pronte ad impennarsi, non appena ultimato l’unico tratto ferroviario afghano che collegherà la regione settentrionale di Herat all’Uzbekistan e all’Iran).
Nel piano 2018-2019 dell’International Association Trans-Caspian Transport Route, responsabile del “Corridoio di mezzo” Baku-Tbilisi-Kars, è stata invece prevista una crescita dei volumi cargo da 15mila a 60mila TEU (l’unità standard dei volumi di trasporto dei conteiner ISO, equivalente a 20 piedi o a circa 40 metri cubi). Per Shah Hussain Murtazawi, vicepresidente afghano, “Lapis Lazuli rappresenta oggi la più economica e breve via commerciale per connettere l’Eurasia, con potenzialità di sviluppo enormi”. O almeno questo è ciò che i cinesi lasciano credere in merito al nuovo segmento del loro titanico progetto “One Belt, One Road”, meglio noto come Nuova via della seta.
Ufficialmente il “Lapis Lazuli” termina all’ombra della basilica di Santa Sofia, benché da Kars a Istanbul il corridoio non possa avvalersi ancora di infrastrutture all’altezza del traffico internazionale. Oltre si apre poi la grande incognita chiamata Unione Europea. Gli investimenti cinesi per accogliere i cargo in arrivo dall’Estremo Oriente, infatti, continuano a essere distribuiti in modo tale da non permettere di individuare un terminale privilegiato: interessano Berlino, Malaszewice in Polonia, Londra, ma coinvolgono anche Venezia, la Puglia del contestato gasdotto Tap e molti altri centri europei. Una situazione che sta disorientando il Vecchio Continente. “Quando leggo la stampa occidentale -spiega con un sorriso Vedat Akçayoz, titolare a Kars di un negozio di vernici trasformato in museo di storia locale- mi rendo conto che la distanza con noi asiatici è rimasta la stessa dei secoli passati, al di là del lancio di nuovi treni veloci o dell’arrivo delle reti digitali. L’Europa, così come gli Stati Uniti, hanno bisogno di punti fermi. Se le linee rette iniziano a serpeggiare, i loro mercati vanno in panico”.
Vedat, al pari dei suoi concittadini, è abituato invece a geometrie molto meno euclidee. Questione di sopravvivenza, per chi vive a Kars. Nei secoli la città ha subito ripetuti capovolgimenti di fronte, passando per le mani di quasi tutte le potenze euroasiatiche: dagli armeni ai romani, dai bizantini agli arabi e ai selgiuchidi, senza scordare le incursioni dei georgiani, sino all’infinito confronto fra impero turco e zarista. Ogni volta le speranze di trasformarsi in un perno fondamentale degli equilibri di potere sono state amaramente disilluse. Non da ultimo, nei fatidici anni del Grande Gioco, quando la vicinanza al Caucaso permise alla città di proporsi come pedone letale sulla scacchiera del più famoso e decisivo conflitto geopolitico dell’Ottocento: quello fra l’impero dello Zar e della Corona britannica. Benché oggi la Gran Bretagna non abbia più molta voce in capitolo e altri pretendenti si siano affacciati sulla scacchiera centroasiatica, la nuova partita ha assunto una dimensione strategica inusuale. La Cina, artefice del rilancio, non solo imposta mosse senza un chiaro obiettivo in Europa, ma sta facendo lo stesso in Asia e nel resto del mondo. Il tono stizzito e sprezzante degli esperti anglo-americani di geopolitica, non a caso, è indice di un’incomprensione di fondo.
“Un vecchio proverbio cinese -ha osservato Nicholas Trickett sulle colonne della rivista “The Diplomat”- dovrebbe essere riadattato così: se la Cina vuole essere ricca, deve costruire prima le strade. Sfortunatamente, però, una strada o una ferrovia sono inutili se non si possiedono o non possono essere gestite legalmente una flotta di camion, di locomotive e il materiale rotabile su cui farli transitare”. Per tenere a bada l’avversario, Stati Uniti e Paesi europei hanno semplicemente riadattato il vecchio principio del “divide et impera”, inserendosi come partner politici o azionisti nei progetti cinesi giudicati più decisivi, oltre a quelli ad essi interconnessi, come il TANAP (Trans anatolia natural gas Pipeline project, per il trasporto del gas azero in Europa, di cui British Petroleum è azionista al 12%).
Dall’altra restano convinti che l’egemonia commerciale sia ancora strettamente legata alle vie marittime o aeree, anziché ferroviarie. “Per i dirigenti del settore logistico -sostengono Brenda Goh e Macin Goetting, analisti Reuters esperti di Asia- il network ferroviario non è al momento conveniente, perché i volumi cargo non hanno raggiunto un livello sostenibile e i costi sono più alti delle spedizioni via mare”. In base a uno studio dell’Università Donghua di Shanghai, i governi provinciali cinesi hanno speso quasi 303 milioni di dollari in sussidi ferroviari, fra il 2011 e il 2016, con l’obiettivo di favorire le spedizioni “dirette” fra Cina ed Europa (cercando dunque di mantenere il controllo della rete): senza questi aiuti statali, riconoscono i dirigenti cinesi della “Yiwu Timex Industrial Investment”, le aziende dovrebbero spendere circa 10mila dollari per realizzare profitti da un singolo cargo via terra, quando ne bastano appena 1.000 per le spedizioni via mare.
Eppure la Cina non smette di investire su ogni fronte: oltre ad aver rafforzato la sua presenza sui mari attraverso una serie di scali commerciali distribuiti in tutto l’Oceano Indiano e Atlantico, apre nuove tratte via terra apparentemente in concorrenza l’una con l’altra. La più preoccupante e inspiegabile, per gli Stati Uniti, riguarda il corridoio transiberiano, un “doppione” del “Lapis Lazuli”. “La tratta Cina-Kazakhstan-Russia-Bielorussia-Europa -spiega Oleg Belozyorov, amministratore delegato del colosso ferroviario russo RZD- ha veicolato cargo per ben 245mila TEU nel 2018. Una crescita del 58% rispetto all’anno precedente. Un successo strepitoso”. Per il sinologo François Julienne, autore del “Trattato dell’efficacia”, sono gli apparenti vantaggi della strategia “multimodale” cinese: a differenza dell’approccio lineare occidentale, la Cina fa pressione su ogni via disponibile a seconda di quale riesca a garantire, al momento, le migliori condizioni. In questo modo ogni attore viene coinvolto, ma nessun partner o avversario è mai al sicuro. L’unico a vincere sempre, dal punto di vista commerciale, è il Paese che può spedire più cargo: la Cina, appunto.
Con la riapertura del mercato afghano è riuscita persino a stimolare il turismo verso il cuore proibito dell’Asia, cui si stanno avvicinando tour operator di tradizione esplorativa. “A luglio organizzeremo il nostro primo viaggio guidato nel corridoio afghano di Wakhan -conferma Barbara Provvedi, pianificatrice logistica di Azalai Travel Design – un’isolata area stretta fra Cina, Pakistan e Tajikistan, alla quale accederemo via terra partendo da Dushanbe. Il Paese, a seguito dei recenti accordi, ha cominciato piano piano a stabilizzarsi, inducendo i francesi a rilanciare per primi le vecchie piste turistiche e a considerare l’Afghanistan accessibile non solo a livello politico o commerciale”. Grazie alla testa di ponte rappresentata da Kars e forte degli antichi legami panturanici, la Turchia sta a sua volta investendo nello sviluppo turistico dell’Asia Centrale, con l’obiettivo di riportare l’Afghanistan nella propria sfera d’influenza. “A Kars preferiamo sorseggiarci un buon tè -osserva Vedat, chiudendo la porta del suo negozio-. Qui non siamo cresciuti accanto ad Halford Mackinder, il teorico della conquista dell’Heartland, ma a credenti molokani e mistici come Georges Ivanovic Gurdjieff, i quali hanno sempre sostenuto che l’Eurasia non ha un centro fisico da cui poter controllare il resto del mondo. Se questo esiste davvero, è solo nel profondo di noi stessi”. Sorride enigmatico. “Basta visitare i vicini resti archeologici di Ani: in superficie appare ancora la potente capitale caucasica del mondo antico, ma sotto di essa continuiamo a scoprire corridoi e cunicoli di cui non conosciamo la fine”.
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