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Nizza, il golpe in Turchia e Brexit sono figlie della globalizzazione

Gli Stati hanno delegato a istituzioni sovranazionali non elettive, come la WTO, la definizione delle regole, ma questo nuovo modello economico mondiale non ha saputo ridurre le disuguaglianze tra parti del Pianeta e tra gruppi sociali, scrive Alessandro Volpi. Ecco perché prevalgono “visione ferocemente egoistiche”

Il drammatico attacco di Nizza, che è soltanto l’ultimo di una scia sanguinosa, il tentativo di colpo di Stato in Turchia, ma anche la Brexit e il radicarsi di forti sentimenti xenofobi in giro per l’Europa, sono i segnali evidenti di una nuova fase della storia mondiale. 
La globalizzazione, avviatasi dagli anni Settanta, ha generato il duplice effetto del brusco indebolimento delle sovranità nazionali e dell’affidamento ai mercati e alle istituzioni sovrastatuali del cruciale compito di definire le politiche economiche e sociali del Pianeta. In estrema sintesi, gli Stati hanno dovuto abdicare al loro ruolo di espressione della volontà popolare per sottostare a regole che dovevano, di fatto, garantire una “graduale” crescita dell’economia, ritenuta indispensabile per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Tali regole che erano, come detto, concepite da realtà non espressione diretta della volontà popolare, a partire dalla Commissione europea per approdare al WTO, hanno così eroso, fin quasi a ridicolizzare, il peso prima di tutto culturale della nozione di cittadinanza, figlia dell’appartenenza a Stati democratici.Una simile dissoluzione ha certamente favorito la ripresa di un fanatismo religioso che ha tratto linfa dalla sostanziale incapacità del nuovo modello economico mondiale di ridurre le disuguaglianze tra parti del Pianeta e tra gruppi sociali. Anzi, quel modello ha approfondito i divari e le fratture, rendendole ancora più forti e lasciandole senza la protezione di un’autorità statale in grado di intervenirvi. Dove la democrazia non ha preso piede, lo stesso modello ha sostenuto, in nome del bene primario della stabilità, governi apertamente dittatoriali, che hanno individuato nella loro per molti versi artificiale “laicità” l’elemento con cui legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, spaventata dall’avanzata delle forme più aggressive dell’Islam.Lungo questo percorso, durato pochi decenni, è stata così liquidata una tradizione, quella nata con l’illuminismo e con la rivoluzione francese, ma anche con la riflessione liberale ottocentesca, con il socialismo transalpino e tedesco, con il keynesismo, con il cattolicesimo liberale e la riflessione del Concilio Vaticano II, che avevano trovato proprio nel modello di Stato democratico del Novecento una possibile per quanto difficoltosa sintesi.
Senza questi punti di riferimento che hanno rappresentato un ancoraggio ideale per gran parte della popolazione europea e un modello a cui ispirarsi per altre culture politiche sono diventati però possibili comportamenti e visioni ferocemente egoistiche, prive di reali coordinate generali e di prospettive “solidaristiche”, accentuate da due altri elementi. 
Il primo è costituito dal grande e pericoloso fascino esercitato dalla costante ricerca della spettacolarizzazione dell’esistenza individuale, alimentata dal linguaggio e dalle immagini della rete globale. Di fronte ad panorama in cui sono stati destrutturati i simboli dell’appartenenza collettiva, a cominciare appunto dagli Stati e dalle politiche pubbliche, si afferma l’esaltazione rappresentata e raccontata in tempo reale dell’atto individuale; dell’atto e non dei comportamenti, perché è l’eccezionalità dell’azione che colpisce e consente di essere raffigurata in pochi scatti e poche righe.
In questo senso, più che del fanatismo religioso o di piani organici e persino di strategie economiche siamo vittime del fascino perverso della comunicazione, “socializzata” nella rete, del gesto clamoroso in grado di incarnare un immediato e gigantesco rifiuto istantaneo della società esistente. Il secondo elemento è costituto dalla sempre più rapida aggregazione degli individualismi in forme settarie, che certo trovano spazio nella fine dell’autorevolezza dello Stato; si assiste in questo senso all’affermarsi di un distorto senso di nazionalismo tribalizzato per cui si decide, in maniera tutta istintiva, di aderire ad una “setta” -che sia l’Inghilterra come espressione di una genuina verginità popolare o una fede religiosa in quanto luogo di comune predestinazione o persino una “banda” di simili- e dall’interno di quella setta, chiaramente raccontata all’esterno ancora attraverso la rete, dichiarare guerra a tutti gli altri. 
Siamo forse alla fine della storia se con tale termine si indica lo sforzo di porre in essere visioni generali capaci di rifiutare le barbarie dell’“homo homini lupus”, tanto fotogenico quanto tragico.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa
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