Ambiente / Approfondimento
Nel Nord del Kenya un progetto di cattura del carbonio mette a rischio le popolazioni locali
Un’inchiesta di Survival International denuncia le criticità del sistema di compensazione delle emissioni: le terre delle comunità locali, soprattutto in Paesi a basso reddito, sono trattate come meri strumenti per stoccare anidride carbonica, di cui poi sono rivenduti i “crediti” senza curarsi delle conseguenze per chi ci abita
“Vengono qui con la scusa delle ‘aree di conservazione’ ma quello che fanno non è conservazione lavorano per i loro egoistici interessi: vendono il nostro carbonio. Vogliono costringerci a trasferirci in aree chiuse ma questa è la nostra terra e noi siamo pastori, non possiamo permetterlo: non possiamo accettare limitazioni che ci impediscano di spostarci con i nostri animali”. Abdullahi Hajj Gonjobe è un rappresentante del popolo Borana, una delle tante popolazioni nomadi che abitano il Nord del Kenya e che da una decina d’anni deve convivere con un progetto “conservazione” ambientale che punta ad aumentare lo stoccaggio del carbonio per venderne i crediti a grandi aziende come Meta e Netflix.
Il progetto in questione è il Northern Kenya grassland carbon project (Nkgcp), lanciato dall’organizzazione statunitense Northen rangerlands trust nel 2013 e che si estende su una superficie pari a due milioni di ettari. L’obiettivo è sostituire il “pascolo tradizionale”, praticato dagli allevatori nella regione da generazioni, con un “pascolo a rotazione pianificato” così da ridurre la pressione degli animali sulla vegetazione permettendone una ricrescita più veloce e, di conseguenza, una maggiore capacità di stoccaggio di anidride carbonica. Questa attività permette al Northen rangerlands trust di generare “crediti” di carbonio che poi vengono venduti ad aziende e società di Paesi ricchi per compensare le emissioni climalteranti generate dalle loro attività.
Progetti come questo vengono presentati come una soluzione vincente per contrastare la crisi climatica e al tempo stesso proteggere le foreste e le aree verdi del Pianeta: le aziende (piccole e grandi) che producono grandi quantità di gas climalteranti possono compensarle acquistando un carbon credit, ovvero un titolo equivalente a una tonnellata di CO2 non emessa o assorbita grazie a un progetto di tutela ambientale, che spesso viene avviato nei Paesi del Sud del mondo. A vigilare su questo tipo di iniziative sono realtà come Verra, un’organizzazione che certifica i progetti forestali di compensazione delle emissioni e assegna loro i carbon credit equivalenti. Lo scorso gennaio, Verra (nel cui registro è presente anche il Nkgcp), è stata al centro di un’inchiesta giornalistica che ha denunciato come oltre il 90% delle compensazioni approvate sarebbero prive di valore e non avrebbero di conseguenza alcuna efficacia nel contrasto alla crisi climatica. La società ha contestato le conclusioni dell’inchiesta giornalistica e ha dichiarato di essere al lavoro per mettere a punto una metodologia aggiornata di certificazione che dovrà entrare in vigore dal 2025.
“I crediti di carbonio fanno parte di una nuova spinta alla mercificazione della natura”, denuncia Survival International che ha analizzato proprio le criticità del progetto Nkgcp in un dettagliato rapporto pubblicato lo scorso aprile contestualmente al lancio della campagna “Carbonio insanguinato”. L’Ong impegnata nella tutela dei popoli indigeni punta il dito contro il fatto che i progetti di compensazione delle emissioni mettono “il cartellino del prezzo sulla natura”, trattando le terre delle comunità locali come puri e semplici strumenti per stoccare anidride carbonica di cui poi rivendono i “crediti” senza curarsi delle conseguenze su chi abita quei territori da generazioni.
Il Northern Kenya grassland carbon project è un esempio paradigmatico delle criticità che circondano questi progetti di tutela ambientale. I dati citati nel rapporto “Blood Carbon: how a carbon offset scheme makes millions from Indigenous land in Northern Kenya” stimano uno stoccaggio extra di 1,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno che, su un periodo di trent’anni, permetterebbero di mettere sul mercato circa 41 milioni di tonnellate nette di crediti di carbonio vendibili.
A gennaio 2022, tutti i 3,2 milioni di crediti di carbonio generati nel periodo 2013-2016 erano già stati venduti. “Il controvalore esatto di queste vendite non è noto, ma è probabile che si aggiri tra i 21 e i 45 milioni di dollari -scrive Survival International-. La maggior parte dei crediti è stata ceduta in grandi blocchi, di cui 180mila a Netflix e 90mila a Meta”. Ad aprile 2022 il progetto ha chiesto un secondo lotto di crediti per il periodo 2017-2020: i crediti certificati sono stati 3,5 milioni e sono stati messi in vendita a partire da dicembre 2022. Secondo quanto riferisce Survival International, 1,3 milioni di questi crediti sarebbero già stati messi in vendita “per lo più in blocchi molto grandi e anonimi”.
Il rapporto solleva diverse criticità legate al Nkgcp, a partire dall’impatto sulle comunità: nell’area interessata dal progetto vivono circa 100mila persone, tra cui indigeni Samburu, Masai, Borana e Rendille. Tutti popoli pastorali il cui stile di vita è indissolubilmente legato al loro bestiame: bovini, cammelli, pecore e capre che si spostano seguendo le precipitazioni locali e regionali, a volte lungo rotte migratorie che possono estendersi per centinaia di chilometri. La modifica del pascolo imposta dal progetto di conservazione minaccia questa pratica pastorale, mettendo a rischio anche la sussistenza alimentare di chi la pratica.
Survival International rimarca come la premessa di base del Nkgcp -ovvero poter imporre il pascolo “a rotazione pianificato” all’interno di aree geografiche definite- non solo contrasti radicalmente con le pratiche pastorali tradizionali ma “si basa su un vecchio pregiudizio coloniale che considera i popoli pastorali incapaci di gestire il proprio ambiente e li accusa di essere responsabili della sua distruzione attraverso il pascolo eccessivo”.
La seconda grande criticità sollevata dal report di Survival International riguarda il fatto che il Nkgcp “non fornisce argomentazioni credibili sull’addizionalità di carbonio. Si basa sul presupposto che le forme tradizionali di pascolo degradino il suolo e che solo il progetto sul carbonio possa porvi rimedio -si legge nel report-. Ma l’assunto che il ‘pascolo non pianificato’ stesse degradando l’area non è supportato da alcuna prova empirica”. Secondo Simon Counsell, già direttore di Rainforest Foundation e autore del rapporto, il Nkgcp “non soddisfa alcuni requisiti fondamentali previsti per i progetti di compensazione di carbonio: ad esempio dimostrare una chiara addizionalità, avere uno scenario di riferimento credibile ed essere in grado di misurare ‘dispersioni’ di carbonio in altri territori. I meccanismi di monitoraggio dell’attuazione e degli impatti del progetto sono fondamentalmente difettosi. È estremamente poco plausibile che i crediti di carbonio venduti dal progetto rappresentino un reale deposito addizionale di carbonio nel suolo dell’area”.
L’Ong denuncia poi il fatto che le comunità interessate da questa iniziativa non abbiano avuto accesso a sufficienti informazioni preliminari e non abbiano potuto esercitare adeguatamente il proprio diritto a un consenso informato. Inoltre, sussisterebbero seri dubbi sul reale diritto del Northen rangerlands trust di “possedere” e commercializzare il carbonio “immagazzinato” nei terreni. Mentre, per quanto riguarda la distribuzione dei benefici economici derivanti dall’iniziativa, Survival International scrive di nutrire “serie preoccupazioni su come vengono distribuiti i fondi generati dalle vendite di carbonio”. A seguito della denuncia di Survival International, Verra ha sospeso l’emissione dei crediti di carbonio del Nkgcp e sottoposto il progetto a revisione per indagare in merito alle affermazioni dell’organizzazione.
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